Per uno studio delle interferenze tra letterature.

I. Introduzione

A inizio Novecento sono molti i triestini che scelgono di spostarsi a Firenze e di collaborare con il vivace ambiente delle riviste. Se questi letterati – che comunque formano un gruppo piuttosto eterogeneo, cfr. Lunzer 2002 – sono mossi dal desiderio di stabilirsi in uno dei centri della cultura italiana assai più che dall’interesse a portare in Italia autori di lingua tedesca, Italo Tavolato intende invece accreditarsi come mediatore tra Vienna e Firenze ed è ben più attento alle novità della cultura contemporanea germanofona. Come scrive Aldo Mastropasqua (2008, 87), Tavolato “rappresenta una marginalità eccentrica che predilige la dispersione e la disseminazione del lavoro intellettuale portando però in dote una dimensione pienamente europea al dibattito culturale, artistico e letterario italiano”.  

Eppure, a parte alcune lodevoli eccezioni (cfr. bibliografia), il caso di Tavolato è sostanzialmente sconosciuto. Le sue carte non sono mai state raccolte e non vi sono lettere sue neppure nell’archivio Papini, che negli anni fiorentini gli fece da mentore. Uno sguardo alla biografia spiega in parte il perché: all’adesione al futurismo è succeduta quella al fascismo; dopo la sua collaborazione a “La Voce” e “Lacerba” Tavolato ha agito come informatore dell’OVRA, come infiltrato tra le file della Gestapo, infine come giornalista in rapporti poco chiari con gli ambienti vaticani (Canali 2004, 191–194).

D’altra parte, l’oblio in cui è caduto non è del tutto giustificato. Interessantissima è la sua attività di mediatore, specialmente se analizzata alla luce della sua produzione letteraria apparsa su “L’anima”, “La Voce”, “Lacerba”, e poi su “Valori plastici”. Tavolato è infatti il primo a tradurre Karl Kraus in una lingua straniera (gennaio 1913). Kraus stesso – stupito – ne dà notizia qualche mese dopo su “Die Fackel”; per capire quanto è pioneristica l’operazione di Tavolato basti pensare che in Italia bisognerà aspettare altri cinquant’anni prima che qualcuno ritraduca lo scrittore austriaco e oltre sessanta prima che qualcuno davvero lo legga. Quella di Tavolato, inoltre, non è solo una traduzione: è un’operazione culturale volta a creare un Kraus “immoralista” ben diverso da quello che leggiamo oggi in Italia (modellato soprattutto dalle iniziative editoriali di Calasso per Adelphi e di Cases per Einaudi, che ne esaltano rispettivamente l’aspetto per così dire mitteleuropeo e etico). Ma quello che esce su “La Voce” e “Lacerba” è un Kraus diverso anche da quello effettivamente vissuto in Austria, tant’è che si potrebbe avanzare la tesi che il Kraus di Tavolato sia un “minore” della letteratura italiana.

[Traduzione come “autobiografia del sé come altro”, come riproduzione del gesto autoriale] Tavolato incarna una tipologia di mediatore destinata a diventare poco dopo minoritaria: quella che importa non solo il testo bensì anche (o soprattutto) il gesto dell’autore, la sua postura (cfr. Meizoz 2007), la sua figura autoriale. A inizio Novecento si parla di portare in Italia “l’uomo” (così Slataper su Hebbel: “mi interesso più dell’uomo che del pensiero suo. […] Voglio che l’Italia lo conosca”, Prezzolini & Slataper 2011, 94, cfr. anche Filippi 2014). Questo tipo di transfer intende far propri, ancor prima degli scritti, i modi di essere scrittore.

La fortuna che questo modo di relazionarsi alle letterature straniere ha avuto nella Firenze d’inizio Novecento si comprende guardando alle poetiche presenti in quell’ambiente. In un contesto come quello vociano, in cui la scrittura è in primis autobiografia, la traduzione diventa biografia, o addirittura – si potrebbe dire – autobiografia del sé come altro. Papini scrive la sua autobiografia a trent’anni (Un uomo finito, 1913): nella Firenze d’inizio Novecento l’autobiografia non è scrittura del passato di un soggetto bensì creazione di un soggetto che scrive, nel presente e nel futuro. Allo stesso modo, per Tavolato la traduzione non è importazione di qualcosa che è già stato scritto, è piuttosto creazione di un “io che scrive” quel qualcosa nel presente e nel futuro. La traduzione, insomma, consiste in un atto che è in primis mimesis autoriale, e solo secondariamente produzione (o riproduzione) testuale.

[Scrittura come produzione del gesto autoriale] La traduzione intesa come riproduzione del gesto autoriale va insieme a una idea di scrittura intesa come produzione del gesto autoriale. È così, a mio parere, che vanno letti gli aforismi e i saggi originali di Tavolato: come atti di creazione e di consolidamento di una figura autoriale. L’interessante conseguenza è che anch’essi risultano essere di secondo grado, derivati, non originali. Nonostante la produzione di Tavolato non si rifaccia esplicitamente ed estensivamente a nessuna opera letteraria esistente (Genette non la considererebbe un palimpsest), non è originale il gesto autoriale che la produce. Tali saggi e aforismi non sono traduzioni, ma non possono neppure essere considerati come scritti privi di un originale: sono privi di un originale ‘testuale’, ma non di un originale ‘autoriale’.

Di conseguenza le traduzioni e gli scritti di Tavolato non possono essere analizzati separatamente le une dagli altri, né smembrate tra italianistica e traduttologia/comparatistica: sono due momenti diversi di un medesimo processo di riscrittura.

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