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Lettera aperta

Contro l'estetizzazione (un po' fanatica) della sofferenza e sulle responsabilità che continuiamo ad avere, nonostante tutto 

In un'università sempre più spaventata dalla complessità, dove le regole del mercato sembrano aver preso definitivamente il sopravvento sui contenuti, una delle cose che mi inquietano di più è la strumentalizzazione di temi di ricerca la cui legittimità ha smesso di essere rivendicata sulla base di argomenti scientificamente plausibili, diventando spesso l'oggetto di negoziazioni dubbie, sia sul piano istituzionale che su quello della didattica. Se è vero che è necessario integrare ai percorsi in materie umanistiche lo studio di autori e temi non canonici – nel tentativo di reinventare ed attualizzare il canone, arricchendolo di voci tanto trascurate quanto indispensabili ad una migliore comprensione di epoche e contesti meno monolitici di come appaiono nei manuali –, per quanto mi riguarda è altrettanto fondamentale garantire che un tale processo si fondi su prese di posizione chiare e, nella misura del possibile, indipendenti dalla loro eventuale "attrattività curricolare". Non discuto della necessità di dare spazio a narrazioni meno autoreferenziali della "nostra" S/storia, né tantomeno del bisogno di contrastare qualsiasi forma di egemonia discorsiva facendo ricorso a discorsi "altri", di natura diversa, capaci di minare dall'interno la coerenza di sistemi solo apparentemente solidi. Ciò detto, pur difendendo strenuamente le riflessioni che non hanno paura di riflettere su se stesse – anche a costo di accogliere le antinomie senza per forza poterle risolvere –, accetto mal volentieri il dilagare di seminari, tavole rotonde ed eventi culturali di vario genere, volti non a mostrare che l'importanza di decostruire categorie estetiche ed interpretative dominanti implica una serie di difficoltà con cui bisogna imparare a confrontarsi, talora anche pagandone il prezzo, ma a mettere in evidenza, al contrario, quanto contribuire ad una simile riscrittura della tradizione possa rivelarsi entusiasmante, se non addirittura cool o amazing.

A seguito di una proiezione cinematografica organizzata qualche settimana fa dal "Program for the Study of Women, Gender and Sexuality" di una delle università con cui collaboro, mi hanno preoccupato moltissimo le affermazioni di studenti e colleghi che, dopo aver commentato diverse testimonianze-video di ragazzi e ragazze omosessuali o transgender alle prese con episodi di ordinaria violenza, fisica o verbale, hanno espresso, oltre all'ammirazione per il coraggio e la forza degli intervistati, anche e soprattutto un tipo di fascinazione, latentemente perversa, nei confronti di chi appartiene a comunità che, proprio in virtù del loro anticonvenzionalismo, non solo delle stigmatizzazioni di cui sono vittime, possono essere assimilate a forme di esistenza "subalterne" – dunque, per definizione, svincolate dalla normatività che moltissime persone contribuiscono ad intrattenere, pur sforzandosi, se non altro nella sfera pubblica, di far valere il contrario. Ora, non ho alcun problema ad accettare il punto di vista di quanti vorrebbero sentirsi protagonisti di un movimento suscettibile di riconfigurare il trascorso individuale di chi ne fa parte, alla luce di una spesso più significativa dinamica di gruppo; inoltre – e come ho già detto –, lungi dal considerare "accessori" i racconti di chi decide di commentare e condividere aspetti essenziali del proprio vissuto, al fine di alimentare riflessioni di più ampio respiro, ritengo basilare includere voci troppo a lungo taciute in quella che vorrei fosse una restituzione irriducibilmente caleidoscopica del "reale" – inteso nella doppia accezione di "realtà circostante" e analisi che di quella realtà si dovrebbe fornire quasi "in diretta", a discapito della discrepanza drammatica fra ritmi di vita e di pensiero, caratteristica della maggior parte delle società capitaliste avanzate. Quello che mi disturba è piuttosto la tendenza, abbastanza generalizzata purtroppo, a sublimare le tragedie del quotidiano, come per metterle a distanza, travestendole fino a trasformarle in qualcosa di non solo accettabile, ma anche, in qualche modo, "desiderabile". Infatti, se questa tendenza riesco a spiegarmela – la crisi delle ideologie ha avuto come conseguenza diretta una ricerca di senso tanto "multidirezionale" quanto "disperata" –, faccio davvero fatica ad accettarla. Ad intimorirmi è, da un lato, quello che secondo me nasconde – un'incapacità sempre più disarmante ad affrontare le situazioni per ciò che rappresentano, anziché per ciò che vorremmo potessero significare –, dall'altro, le innumerevoli e pericolosissime analogie di cui credo che un tale atteggiamento sia all'origine.

Sin dalla seconda metà degli anni '70, autori e intellettuali del calibro di Primo Levi hanno provato a metterci in guardia sugli usi impropri della memoria (individuale e collettiva), così come di ogni eventuale narrativizzazione "fuori fuoco" della S/storia – impossibile non ricordare il contributo di Levi sul Portiere di Notte di Liliana Cavani, film "bello e falso", per riprendere le parole esatte dello scrittore. Ecco, che oggi le ferite subite – poco importa in questo caso se da un individuo o da una collettività – rischino di suscitare attenzioni anomale, al punto da esasperare la componente traumatica di vicende che, in assenza di un trauma, non parrebbero nemmeno degne di essere ricordate (!), mi sembra contraddire la linea di condotta che sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale si sarebbe dovuta osservare, anche solo per una questione di rispetto nei confronti di tutte quelle moltitudini cancellate in maniera radicale dalle violenze di massa del secolo scorso. Quanto ai "sommersi", dubito che le loro testimonianze, se esistessero tutte, meriterebbero di essere sublimate. Mi sono sempre sentito terribilmente a disagio all'idea di poter associare, semplicemente, gli "esili" agli "esili volontari", la "Diaspora" a qualunque altra manifestazione dello sradicamento o della frammentazione identitaria (un performer di origine algerina che lavora fra Parigi e Montreal senza intrattenere alcun rapporto concreto con il paese di provenienza dei suoi genitori o dei suoi nonni – ammesso che vi sia mai stato – non è un immigrato clandestino che ha attraversato il Mediterraneo nella speranza di salvarsi in Francia ...) Sono ancora più in difficoltà quando tali associazioni diventano programmatiche, e paiono potersi giustificare sulla base di un comparatismo disgiunto dall'ermeneutica, oppure in nome di una forma d'interdisciplinarietà che si è smesso d'interrogare, ma nella quale non sarebbe conveniente non credere, carrieristicamente parlando. Il dibattito che si è prodotto nel seminario a cui facevo riferimento sopra mi ha infastidito principalmente per due motivi: lasciarsi coinvolgere dalla "forma" che un certo militantismo può assumere non ha niente a che vedere col cogliere le ragioni profonde di un atto qualsiasi di dissidenza politica – che si tratti di un'azione consapevole o meno –; identificarsi troppo in chi, nonostante tutto, "ce l'ha fatta" ed è autorizzato a  prendere la parola per ritracciare la propria traiettoria di fronte ad un uditorio, se non si fa attenzione, può significare perdere di vista il destino di quanti la possibilità di parlare non ce l'avranno mai/più – valorizzando peraltro in maniera eccessiva la portata di una deposizione dialogica, senza tener conto del fatto che anche il silenzio può assumere in determinate circostanze il valore di una scelta (o di un dialogo). Ma c'è di più: se a tratti l'orientamento delle discussioni mi è parso quasi scandaloso, è perché la retorica degli scambi celava un'adesione esaltata o sacrale (sacraleggiante?) a quel tipo di "politicamente corretto" che, lo sappiamo, ha spesso l'effetto di appiattire i propositi di ciascuno, in nome d'adagi federatori, in quanto nascostamente moraleggianti.

Non c'è niente di cool nell'essere esclusi, umiliati, torturati; non è affatto amazing sopravvivere a crimini che avevano come obiettivo l'annientamento. "Salvarsi non serve a niente", per parafrasare Walter Siti, se non, appunto, ad essere salvi. Certo, sta ad ognuno decidere quali significazioni attribuire  alla propria salvezza. Ma la salvezza, come la differenza, non è necessariamente un valore in sé. E sarebbe offensivo nei confronti di molti pensarlo, non essere in grado di cogliere le sfumature. Poco importa se l'estetizzazione (e l'esteriorizzazione) della violenza e del dolore sono di moda, una delle funzioni della classe intellettuale dovrebbe essere quella di scardinare i luoghi comuni, per dare spazio a postulati di diverso ordine e grado. Poco importa se i cosiddetti Mafia Movies fanno della criminalità organizzata una specie di "marchio di fabbrica", con tanto di relativi supporters; a differenza degli spettatori, il cinema sa – anche quando gioca o scherza, o forse soprattutto quando non si prende troppo sul serio – che il linguaggio dell'arte è fondato su un presupposto in fondo molto semplice: dire/mostrare una cosa per affermarne/farne vedere un'altra. Dietro alla presunta "vittoria" di chi ce l'ha fatta, di chi è uscito indenne da una catastrofe (individuale o collettiva), bisognerebbe sempre impegnarsi a discernere la presenza fantomatica d'una narrazione possibilmente controfattuale, il cui esito atroce non avrebbe potuto dare adito ad interpretazioni più articolate. È lo sforzo comune che mi sarei aspettato scaturisse da un momento di confronto seminariale, in fondo simile a tanti altri, ma che in una situazione di crisi politica transnazionale come quella che stiamo vivendo in Europa e negli Stati Uniti (per limitarsi all'Occidente) assume contorni più emblematici di quanto vorrei.

Come contrastare le derive di leader politici imbarazzanti e nocivi, quando non si è più in grado di sviluppare un discorso critico deviando dalla doxa di un'accademia sempre più attenta a vendere i propri prodotti, a non deludere il suo pubblico, anziché a disorientare di proposito e sistematicamente quanti, in quell'accademia, hanno deciso di "formarsi"? Quali strategie sarebbe opportuno adottare per limitare i danni di governi sempre più "tecnici" e sempre meno "edotti"? (Lo so, è anacronistico ed anche un po' reazionario continuare a credere che la politica non sia fatta per tutti...) In che modo opporsi alla volgarità o all'assolutismo degli slogan che ci assalgono in maniera sempre più invasiva, se il relativismo culturale rischia di trasformarsi in una variante appena più sofisticata del perbenismo benpensante, e questo anche in ambienti dai quali ci si aspetterebbe una problematizzazione ben più profonda e disinteressata delle cose intorno? Infine, perché ostinarsi ad evidenziare le minacce solo se percepite come "allogene", quando gli attentati terroristi degli ultimi anni non hanno fatto che ricordarci, in un altro modo ancora, fino a che punto quelle intestine possano rivelarsi letali? Il consenso che si cerca più per abitudine che per scelta favorisce meccanismi di compensazione imprevedibili: anche a costo di sembrare semplicistico, voglio ricordare che la classe intellettuale, nel corso del tempo, se ne è resa conto ciclicamente – e non di rado subendo quanto avrebbe potuto e dovuto essere evitato.  Dopo aver constatato a più riprese che i gender come i postcolonial o i trauma studies sono serviti soprattutto a far finta di parlare di quello di cui non si vuole parlare comunque, quanto ci vorrà ancora prima che i sempre più numerosi fan di queste discipline decidano di operare una rivoluzione dall'interno e "dal basso", affinché la posta in gioco sia nuovamente degna della cesura da operare?

L'America è il paese dell'affirmative action e di Donald Trump. Possibile che nessuno si chieda più esplicitamente se voglia dire qualcosa? Io a questo pensavo, circondato da universitari con i jeans strappati e le magliette arcobaleno, che sognano di avere di nuovo vent'anni quando stanno per compierne cinquanta. Vorrei poter dire che non mi sono sentito molto solo. Che non ho avuto nostalgia di un liceo classico "fatto bene" e della mia insegnante di italiano quando mi spiegava Montale con le lacrime agli occhi e la voce che trema nel rileggere, una volta di più, Dora Markus.

 

Baltimora, ottobre 2017

 

Zitierhinweis:

Furci, Guido (2017): "Lettera aperta. Contro l'estetizzazione (un po' fanatica) della sofferenza e sulle responsabilità che continuiamo ad avere, nonostante tutto." In lettere aperte vol. 4, 89-92. [online https://www.lettereaperte.net/artikel/ausgabe-42017/308]

 

 

 

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