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Gideon Bachmann: un diapason di sguardo e voce

Scrivere di Gideon Bachmann mi da un'emozione particolare. È stato un incontro importante nella mia vita, personale più che professionale. Gideon era un'artista a tutto tondo, complesso, profondo, dotato di una poetica ricchissima, figlia del suo essere nomade, poliglotta, profondo conoscitore del cinema in tutti i suoi aspetti, ma anche curioso verso la musica, la letteratura, la politica, l'arte in generale. Un uomo di un carisma eccezionale, capace di continue intuizioni geniali, di entusiasmi temperati dalla razionalità ferrea, di collere rapide e viscerali, genuino nel suo essere furbo, pratico e pronto a ogni tipo di dialogo. Capace di essere in qualsiasi luogo del mondo e in qualsiasi contesto con assoluta naturalezza, ostentando sempre sicurezza, basata su una insindacabile competenza. Vorrei raccontare di lui concentrandomi soprattutto sulla sua attività, di cui mi sono direttamente e indirettamente a lungo occupato, ma – proprio per la natura di Gideon – mi è impossibile farlo senza raccontare qualcosa che sia prima di tutto della persona: sì, se devo trovare una dote per la quale davvero eccelleva, era il suo essere tremendamente vivo, una persona a tutto tondo, in grado di dialogare con chiunque allo stesso livello, con rispetto ma con profonda e immediata empatia, associata ad un'assoluta – e spiazzante talvolta – franchezza. Il lettore mi perdonerà, spero, se quindi questa digressione ogni tanto oscilla fra il racconto del suo modo di lavorare e alcune sue caratteristiche, narrate magari proprio con l'ausilio di ricordi personali. Ma Gideon era così: o tutto o niente, lo si doveva (e lo si deve) ‘prendere’ tutto assieme, nelle sue inscindibili mille sfaccettature.

 

Foto 1. Bachmann, anlässlich der Veröffentlichung seiner Pasolini-Interviews, Cineteca di Bologna (November 2015)

 

Non posso che cominciare dalla prima volta che l'ho incontrato. Eravamo a Pordenone, ovviamente negli uffici a Cinemazero che custodisce e detiene i diritti di tutto il suo patrimonio artistico. Sedeva in fondo alla stanza. Quando mi vide entrare – passavo di lì per raggiungere un altro ambiente – mi chiese di avvicinarmi, in un italiano perfetto, ma con lieve accento tedesco. Cinemazero è sempre stato un ‘porto di mare’ fra autori, registi, collaboratori, amici, curatori... Gli uffici – anche oggi – sono aperti a tutti e non è infrequente che ci si presenti senza appuntamento. Mi chiesi dunque chi fosse questo signore distinto, mentre mi apprestavo a stringergli la mano andandogli incontro. Rimase seduto e mi guardò fisso negli occhi. Mi disse "Ciao, sono Gideon... e tu chi sei e di cosa ti occupi?". Non poteva che iniziare così il nostro rapporto, con delle sue domande. Dirette, senza fronzoli. Mi colpì, nella stretta di mano, il grande numero di anelli che sentivo avesse sulle dita. Pensai a chissà quante fossero le persone e gli episodi della vita che ne ‘legavano’ le falangi. Lo sguardo, poi, era magnetico: mi sembrò mi frugasse dentro guardandomi, ma con delicatezza e rispetto. Il suo ‘guardare’: collocato con forza, energia, in un punto di vista immediatamente privilegiato e originale, una sua caratteristica peculiare.

Alla mia risposta, composta ingenuamente solo dal nome (la sua età, io di molto più giovane, sembrava richiedere un misto di rispetto e discrezione particolare, ma predominò l'imbarazzo datomi dal suo scrutarmi così profondamente...), mi disse immediatamente "hai dei begli occhi, buoni e vivi". Rimasi così sorpreso da una dichiarazione tanto icastica verso una persona appena conosciuta che non credo proferii parola. Diretto, pratico, deciso, capace di ‘leggere’ chi aveva davanti in qualche istante.

Allora era il 2003, collaboravo da pochissimo tempo con Cinemazero. Da quel giorno in poi per circa tredici anni lavorammo assieme costantemente, sui suoi fondi, sui suoi materiali, curando mostre, pubblicazioni, catalogando, continuando il grande lavoro fatto nel tempo da Cinemazero e da Andrea Crozzoli, che nel tempo mi ha tramandato il sapere – soprattutto orale – legato agli ampi materiali di Bachmann.

L'inizio e la fine del rapporto: Gideon si ammalò, irrimediabilmente, a fine 2015 dopo un'ampia trasferta italiana, in cui viaggiammo insieme in treno fra Venezia, Roma e Bologna. Presentavamo il volume da me curato con la trascrizione di tutte le sue conversazioni con Pier Paolo Pasolini, uscito nel novembre di quell'anno, in occasione del quarantennale della morte del poeta. Da diversi anni Gideon camminava a fatica a causa di un grave problema alla schiena, esito di un incidente a metà anni '60, seguendo chissà quale regista italiano sul set in Jugoslavia (all'epoca furono in diversi, per varie ragioni produttive, a girare nel Paese di Tito). Alla fine di quel viaggio con me – lo ricordo come fosse oggi –, nella tappa di Bologna, scese dal taxi alla stazione con enorme fatica. Si tenne al mio braccio – appoggiato al bastone con l'altra mano – com'era solito fare, con una gravità diversa dal solito. Era stanco, provato. E in parte, tuttora purtroppo, me ne sento responsabile: avevo molto premuto con gli uffici stampa nazionali che fosse lui in persona a testimoniare il suo rapporto con Pasolini. E tutti, ovviamente, volevano sentire la sua voce. Forse, col senno di poi, fu un viaggio eccessivamente denso per la sua età e le sue condizioni di salute. Gideon, del resto, era un generoso e si concesse senza riserve, perché – cosa rara per un intellettuale della sua caratura – quello che raccontava, il raccontarlo, il poterlo condividere con le sue sempre originali chiavi di lettura, era la sua soddisfazione più grande. Era, del resto, un autentico uomo mediatico che in vita non aveva trascurato alcun mezzo di comunicazione. A Roma intervenne in modo carismatico in vari programmi televisivi e radiofonici; in prima serata, al TG1, raccontò agli spettatori italiani del suo rapporto con Pasolini. Tornò a casa a Karlsruhe provato. Ci sentimmo più volte al telefono, poi meno e sempre più via mail, a testimoniare di una stanchezza e una rabbia crescente. La mail non fu infatti mai il mezzo più utilizzato fra noi: Gideon sceglieva di scrivere al computer per criticare un'operazione, cambiare un progetto già praticamente pronto, lamentarsi per qualcosa che non era rispondente al suo gusto o desiderio. Raramente per ‘costruire’: per quello preferiva le lettere, la posta tradizionale, il telefono. Non aveva un carattere sempre facile, spesso nella sua vita rutilante di collaborazioni illustri e rapporti con intellettuali, creativi, uomini di cultura di tutto il mondo era rimasto deluso, e probabilmente in particolare nell'ultimo periodo della sua esistenza questo si faceva sentire. Così le mail che mi mandò nell'ultimo anno erano sempre più dolorose e “affaticate”, di fronte all'attività che andava avanti comunque con grandi risultati, come era sempre stato nel rapporto quasi quarantennale con Cinemazero (negli ultimi due anni oltre all'Italia suddetta andammo in rapida successione ad Haifa, Stoccarda, Ljubljana, Parigi..., oltre al lavoro costante e progressivo di digitalizzazione e conservazione con tutti i crismi dei suoi materiali). In lui stava diventando preponderante il sentimento di sconfitta del corpo, che non sentiva più rispondere e capace di muoversi come avrebbe voluto. Per lui, autentico cittadino del mondo, doveva essere una vera condanna: la sua presenza era fisica, durante tutta la sua vita – tranne rarissimi casi (credo su quasi un migliaio siano quattro o cinque le registrazioni al telefono nel nostro archivio) – le interviste con intellettuali e registi avvenivano sempre di persona.

 

Foto 2. Bachmann, Cineteca di Bologna (November 2015)

 

La voce si fece sempre più stanca nelle telefonate che ci facevamo, fino all'ultima, dall'ospedale, a ottobre 2016: le sue parole suonarono alle mie orecchie come un soffio greve, impostato sul registro più basso del suo tono usuale. Mi sembrò impossibile: non poteva essere che Gideon Bachmann, per una vita ‘La Voce’ che aveva dialogato con tutti i più grandi – lui, col suo sogno del museo Vox Humana, archivio sonoro onnicomprensivo di intellettuali e artisti – non avesse più fiato. La sua voce era stato l'autentico diapason, capace di accordare e far vibrare con intensità simili quella degli artisti più complessi e dai caratteri più diversi. Un diapason che improvvisamente non vibrava più... Quando misi giù la cornetta, comprendendo subito che avrebbe potuto essere l'ultima volta che lo sentivo, ripensai automaticamente al nostro primo incontro. A come la sua voce, fatta di domande e curiosità inesauribili, era semplicemente la sua esistenza. Allora, nel 2003, stavo curando una pubblicazione dedicata a Fellini e passavo molto tempo davanti a un registratore/riproduttore Nagra per ascoltare in cuffia i preziosissimi nastri in cui Bachmann intervistava ‘il Grande Federico’. Ogni scatola di cartone che conteneva la singola bobina riportava, in una grafia elegante e chiara, le annotazioni di Bachmann, con il dettaglio dell'occasione e un brevissimo riassunto del contenuto, nonché traccia delle sue molteplici catalogazioni (questo rimane un percorso ancora tutto da esplorare: come Gideon catalogasse i suoi materiali, non solo in base a semplici criteri alfabetici o di occasione, ma anche di contenuto e temi...). Mi sedevo al tavolo del Nagra, e con massima cura inserivo la pellicola, facendola scorrere fra rulli e rocchetti, con la trepidazione di poter accedere a qualcosa che forse non era mai stato sentito né riprodotto. Era sorprendente il mondo articolatissimo che – magmatico – sembrava esplodere da ogni singolo ascolto. Bachmann dialogava sempre alla pari con i suoi interlocutori, li incalzava con pazienza, capace di confidenza schietta dovuta alla sua conoscenza dei contenuti, dei dettagli, degli aneddoti, della poetica degli artisti. Appariva sorprendente: un intervistatore che era palesemente allo stesso livello dei grandi artisti a cui poneva le domande. La conversazione: subito intensa, proprio per il riconoscere da parte dell'interlocutore in Bachmann di una sponda qualificata, corretta, partecipe. In più, abbagliante per mole e intensità, il lavoro di Gideon mi stupiva come "progetto unico portato avanti nel tempo" (come bene ha scritto Edgar Reitz, una sorta di Vasari del mondo del cinema). Incrollabile la sua determinazione nel raggiungere i suoi obbiettivi: metodo, costanza, preparazione, sfrontatezza, ne facevano e ne fanno uno dei grandi testimoni della storia del cinema dal 1960 a fine anni '90. La mole di registrazioni audio conservate a tutt'oggi da Cinemazero è enorme, in parte inesplorata, e testimonia un lavoro maniacale da parte di Bachmann nel registrare, più o meno per tutta la sua vita e con ogni tipo di formato (Nagra in vari standard, audiocassette, video di ogni foggia, seguendo anche l'evoluzione della tecnologia...), i grandi protagonisti del cinema del suo tempo. Sul solo Fellini – che da qui in poi prenderemo come esempio per parlare della sua opera, per economia di spazio facendo torto a tutti gli altri – i nastri sono quasi duecento, le immagini decine e decine di ore di girato, con interviste non solo a Fellini, ma anche ai suoi collaboratori più stretti, Mastroianni, Masina, Flaiano... Oltre settemila le fotografie, di cui almeno tremila scattate dallo stesso Bachmann. La quantità del materiale è del resto proporzionale a un rapporto che, come con Pasolini, durò a lungo, in modo continuativo dal 1961 alla morte del cineasta avvenuta nel 1993, con qualche ‘buco’ di intensità qua e là, dovuto più che altro al ‘raffredamento’ di Fellini verso Bachmann per alcuni suoi testi o opinioni critiche forse troppo dirette, o qualche altro episodio più ‘personale’ a cui accenneremo...

In realtà, per dare un riferimento preciso, il rapporto con Fellini è datato 1957 e merita di essere ricordato per l'aura mitica, sempre caratterizzante i molti racconti orali che lo stesso Bachmann ce ne ha fatto nel tempo.

È il 27 ottobre 1957 e una memorabile nevicata avvolge New York. Federico Fellini è in auto, nel traffico bloccato. Lo attende la prima americana de Le notti di Cabiria (premio Oscar). Con lui siede il ‘nostro’ Gideon Bachmann, animatore con Jonas Mekas di visioni ‘corsare’ a New York dall'inizio degli anni '50 (le famose proiezioni del The Film Group, ma anche la storica rivista di Mekas Film Culture a cui Bachmann collaborò). Gideon è infatti anche giornalista, per la carta stampata e per la radio, con un programma radiofonico (The Film Art) sul cinema noto in tutti gli Stati Uniti: registrandolo, spera di cavare al grande Federico qualche battuta da usare, come al suo solito, un po' dappertutto. È un attimo: “In realtà, Fellini, io vorrei fare un libro su di Lei, una lunga intervista con molte foto... Una cosa sul Suo modo di lavorare, Sui suoi sogni, sul Suo modo di creare”. “Dammi del tu, Gideon: perché non vieni a Roma, per farlo?” Una delle solite boutade felliniane, probabilmente per rimandare o prendere tempo... Ma Bachmann, poliglotta nato in Germania, da famiglia ebrea, vissuto in uno dei primi kibbutz in Israele, poi cittadino americano, è un sognatore a cui la vita ha insegnato di essere molto determinato, a lottare per tutto senza molti tentennamenti. Pochi anni dopo si trasferisce così nella capitale, dove – per un colpo di fortuna – si trova a vivere nella Torre del Grillo (alla ricerca di un affitto, sbaglia indirizzo ma trova comunque una proprietà in cerca di inquilino), undici terrazze vista Fori Imperiali. In pochissimo tempo la casa si popola di intellettuali (e, come sempre, di molte donne... secondo le parole di Gideon sempre semplicemente ‘un'amica’), stringe rapporti intensi con un numero incredibile di registi, che insegue su ogni set e in ogni luogo, in primis proprio Fellini. Bachmann è anche fotografo, di grandissimo talento. Fotografa e registra tutti. Pasolini (amico fino alla prematura scomparsa), Bertolucci, Bellocchio, Ferreri... E in particolare Federico. Sarà così l'autore delle più celebri fotografie sul set di 8 ½: Marcello / Guido in bianco e nero è raccontato dalla stampa di tutto il mondo con i suoi scatti. A tutt'oggi, chi pensa a questa pietra miliare del cinema se non una sequenza del film ricorda le foto di Gideon. Bianco e nero netto, taglio e prospettiva originale, spesso giochi di luce e di specchi: i suoi scatti incarnano il suo metodo d'intervista, ma anche di documentario, tradotti per il mezzo fotografico. Gideon Bachmann, come tutti i grandi artisti, qualsiasi sia il mezzo che utilizza, porta avanti una sua poetica, un suo mondo interiore, un suo modo di approcciarsi alla realtà. Gideon Bachmann – come in alcune fantastiche inquadrature di Jonas!, avvolto a spirale inseguendo Mekas e la sua camera – gira intorno ai suoi soggetti, li affronta da ogni lato, sicuro, padroneggiante la tenica e – soprattutto – con un risultato da ottenere. Jonas!, fra l'altro, essendo un film in parte dimenticato (e che abbiamo avuto il privilegio di restaurare con La Cineteca del Friuli e presentare al festival ‘Il cinema ritrovato’ a Bologna nel 2017) ma magnifico, merita una breve analisi. Prodotto dalla Cinemages (casa di produzione di Bachmann, omonima della sua rivista Cinemages – Magazine), è un viaggio breve ma densissimo nell’universo creativo di Jonas Mekas, un piccolo manifesto sul personaggio Mekas e sul suo modo di fare cinema underground, che – con le sue parole, nel film – definisce "per nulla importante, totalmente giocoso, che puoi realizzare con pochi dollari di pellicola." Una lingua propria, che gli appartiene da sempre – come a Bachmann –, scelta perché non bastava più scrivere poesie in lituano, ma gli serviva un mezzo per parlare a un pubblico più vasto, più trasversale (sorprendente il grande numero di analogie fra Bachmann e Mekas...). Un film di montaggio, spiazzante, in costante dialogo con i suoni fuori campo, con una colonna sonora rapsodica (Velvet Underground e altro). Un film anche sulla New York dei fine anni '60, in cui trovano spazio i materiali girati dallo stesso Mekas, a sua volta ritratto da Bachmann 'danzare' con la sua macchina da presa Bolex a Central Park inseguendo scoiattoli o uscendo dal famoso Chelsea Hotel, mentre dialoga con Allen Ginsberg, Norman Mailer, con Shirley Clark, mentre partecipa e riprende manifestazioni contro il Vietnam… Bachmann e Mekas si erano conosciuti nel 1952 alle lezioni di cinema di Hans Richter: sembrano suggellare 'in suo onore' con questo film un'amicizia proseguita fra il già citato Film Culture e il Film Study Group newyorkese e fatta di amore per la forma, per la luce, per il montaggio generativo, per le possibilità infinite del cinema, che è – come dice Mekas per rispondere a una domanda di Bachmann: "ricordi, un bambino, un balletto, la verità (forse)."

Ma torniamo a 8 ½: Durante la lavorazione Bachmann – eterno seduttore – ha un rapporto privilegiato con Anouk Aimée. In mezzo ai rullini, più spesso alla fine, ci sono – come succede quasi in tutta la produzione fotografica di Bachmann, con altri soggetti/altre partner – foto private, di amicizia e complicità. La macchina fotografica, in quegli anni, per Bachmann è un elemento costante che lo segue dappertutto, che ritrae ogni cosa che incontra: persone, luoghi, set e vita privata. Dopo 8 ½ Fellini lo accoglie, ma a volte lo respinge, forse proprio per causa di alcune gelosie, di alcuni rapporti non chiariti, ma forse più per il fine intelletto di Bachmann che è critico con eccessiva fermezza in certi momenti, pressante con le domande, poste in ogni istante: i nastri a Cinemazero testimoniano registrazioni in ogni tipo di occasione (ristoranti, bar, case, giardini, conferenze stampa...). Fellini – lo dice nettamente – soffre questa ossessione, come un po' mal sopporta tutto il rutilante mondo di cui si circonda e che gli è però fondamentale per esistere, creare, realizzare. "Basta Gideon, basta adesso... sono stanco", o ancora "me l'hai già fatta cento volte questa domanda!", sentiamo dire Fellini. Bachmann, intransigente, acuto e caparbio, com'era partito nel conversare con Pasolini da lunghe frasi in inglese o in tedesco (con la mediazione di un interprete), dal Lei più formale in un italiano zoppicante, arriva al tu esprimendo articolati concetti sull'evoluzione della cultura e della società italiana con ottima competenza lessicale: ma Federico è stufo, e ogni tanto – con la solita ironia – prende in giro Gideon e lo sminuisce, dicendogli "la fai più complicata...".

 

Aus einem unveröffentlichten Interview mit Fellini (mit freundlicher Genehmigung v. Cinemazero, Pordenone)

 

Il libro dunque viene rimandato, più volte, poi non si fa. Bachmann, però, come da suo temperamento, non molla: registrerà e fotograferà Fellini per tutta la sua vita, come se fosse un tentativo sempre mancante dell' ‘atto finale’ di catturare la complessità del regista. Un atto forse – azzardiamo un'ipotesi – voluto da entrambi, vuoi per poter continuare ‘la favola’, vuoi scaramanticamente per evitare di mettere un punto finale…

Così, intanto Bachmann si dedica ad altre attività, in particolare alla regia: vince nel 1968 il Leone d'argento a Venezia per il suo documentario Underground New York, sulla beat culture della grande mela: un film importantissimo e dimenticato, dove ci sono Andy Warhol (ritratto nella sua factory), Allen Ginsberg, Velvet Undeground, Shirley Clarke, Kuchar Brothers e Bruce Connor... Alcuni dei materiali sono tagli o riprese di quanto già girato per Jonas! (il footage di se stesso è un'altra caratteristica di Bachmann). In ogni caso, il film è uno splendido, raro, ‘dietro le quinte’ dell'esplosivo mondo culturale sommerso di New York negli ultimi anni sessanta, dove la troupe televisiva tedesca (ZDF), guidata dal giornalista Gideon Bachmann (che ovviamente poi litigò con la produzione del film, facendosene una sua versione e lasciando loro un'altra), esplora l'epicentro della rivoluzione degli anni sessanta in arte, musica, poesia e film, intervistando i principali attori del New American Cinema, a tutti gli effetti nato e cresciuto per le strade di New York. Il tutto in un montaggio fortemente movimentato e ritmico, in dialogo visivo con gli eventi dell'epoca, gli sconvolgimenti culturali delle arti e di crescente agitazione politica contro la guerra del Vietnam.

Bachmann in quegli anni continua a intervistare tutti, facendo il corrispondente con gli USA per varie testate, un po' da tutti i festival del pianeta, ma – ovviamente – soprattutto da Roma. Nel 1970 monta l'unico vero backstage esistente sul modo di lavorare di Fellini: Ciao, Federico!, girato sul rutilante set di Satyricon (è il film più conosciuto e visto di Bachmann e non ritengo opportuno dunque analizzarlo in questa sede). L'archivio si arricchisce sempre più: Polanski, Tarkvoskji, Huston, Bergman, Resnais, Godard, l'amico Edgar Reitz... Bachmann dialoga – perché con lui non si deve mai parlare di semplici interviste – con tutti i grandissimi. Fotografa meno nel tempo, ma colleziona sempre di più scatti rari, spesso organizzando scambi con altri grandi fotografi. La sua compagna diventa Deborah Beer, anch'essa fotografa di scena su moltissimi set (Brass, Cavani, Pasolini, Zeffirelli...). I due sono una coppia conosciuta da tutti. A Roma Gideon è così noto, così presente, così particolare nei modi e sorprendentemente sempre aggiornato su tutto che si vocifera essere una spia... Fellini, dopo una distanza un po' più marcata segnata proprio da Ciao, Federico! (il film non gli è piaciuto), riallaccia i rapporti con Gideon, è amico di lui e Deborah. Eppure, nonostante tutte le immagini scattate, quelle acquisite di altri fotografi e tutti i documenti (press book, sceneggiature, appunti, disegni) che Bachmann possiede ormai su Fellini il libro ancora non si fa. Nell'archivio di Cinemazero oltre a questi materiali ci sono anche le lettere che testimoniano il tentativo costante – un'altra delle caratteristiche ricorrenti della vita di Bachmann – di prendere contatti con case editrici, case di distribuzione, di produzione, di vendere a destra e a sinistra magari gli stessi pezzi, un po' rimaneggiati: le foto 'ma prese da un'altra angolazione, quelle non viste", le riprese non montate, un testo inedito, nuovi appunti...

Così, forse in modo apparentemente sorprendente, sarà solo nel 1985 che, finalmente, Fellini si concederà, a lungo, con calma alle domande di Bachmann di fronte alla cinepresa. Dopo 25 anni di amicizia Fellini sembra sentire l'urgenza di confidarsi, di concedersi. L'intervista (40 minuti completamente inediti) è riapparsa ora, nell'estate nel 2018, con altri materiali mai visti (interviste a Marcello Mastroianni e Giulietta Masina) negli archivi di Cinemazero, frutto proprio di una capillare catalogazione e analisi dei materiali che spesso si mescolano e sovrappongono. Il documento è incredibile e sintetizza il rapporto fra Bachmann e Fellini, nonché il modo di lavorare di entrambi. Il maestro racconta, a chi ha sognato di intervistarlo ‘definitivamente’ per una vita, la sua natura di creatore d'immagini: un documento unico e raro che parla di cinema e al cinema, dell'arte realizzata e di quella solo sognata, ma – come sempre con Fellini e con Bachmann – anche di noi, della nostra società, del pubblico e della televisione che in fondo fu nemica e – forse – morte (almeno culturale) di Federico... L'intervista ora diventerà il ‘fil rouge’ – materiale prezioso da montarsi con giustezza e ritmo – di un film in parte di ‘footage’ in parte di creazione autoriale (accedendo anche allo straordinario materiale d'archivio già citato esistente a Cinemazero, in primis audio e foto) che racconti questo straordinario sodalizio. Bachmann-Fellini: un dittico sconosciuto al pubblico più largo, da scoprire per la forza di due autentici autori messi in campo ed a confronto. Da una parte un maestro acclamato in tutto il mondo, dall'altra un giornalista-fotografo-documentarista di eccezionale valore ancora non adeguatamente raccontato. Un modo per conoscere un Fellini mai visto, in una storia a tratti rocambolesca, avvincente, piena di colore e a volte ‘humor’ che ci parla anche del cinema e del fare cinema che (forse) non esiste più.

 

 

Foto 3. mit Riccardo Costantini (links), Präsentation von Polemica. Politica. Potere, Cineteca di Bologna (November 2015)

 

Allo stesso modo tutte le conversazioni di Bachmann con Fellini verranno trascritte e organizzate in un volume onnicomprensivo, una sorta di ‘Zibaldone’ felliniano organizzato per macro temi e parole chiave che rappresenterà un monumentale Federico – sotto la lente di Gideon Bachmann. Il centenario della nascita di Fellini, nel 2020, restituirà al pubblico questi racconti complessi per ricordare, con le parole – profondamente analitiche – di Bachmann che

non è l’uomo Fellini che ci attira e ci spaventa con il suo genio e la sua solitudine bensì quello che egli rappresenta, il simbolo di una cultura ai margini dell'autodistruzione, di una nazione che ci rappresenta tutti e che non ha ancora trovato un modo umano per far fronte al progresso e di un essere umano, un essere umano comune, che non è in grado di risolvere i conflitti della sua coscienza. In questo senso, Fellini non è migliore di nessuno di noi.[1]

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