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Josephus

E così a prezzo di molte spese e fatiche io, che sono uno straniero, presento ai greci e ai romani questa memoria di grandi imprese.[1]

In Germania, nella città di Karlsruhe, al terzo piano del bel palazzo col glicine di Gartenstraße, si trova l’appartamento Bachmann; in quei locali – purtroppo ad oggi ancora inaccessibili, in attesa che siano dipanate le questioni della successione ereditaria – sono racchiuse per intero la geografia e la storia della lunga vita di Gideon Bachmann, nato il 18 febbraio 1927 ad Heilbronn (sotto la Repubblica di Weimar) col nome di Hans Werner, morto il 24 novembre 2016 a Karlsruhe (col medesimo nome) nella Repubblica Federale di Germania.

Quel che egli ha vissuto tra il 1927 ed il 2016 è un pezzo di storia del mondo ed una narrazione a sé;[2] ma colpisce che la lunga parabola di Bachmann si chiuda in Germania, a poche decine di chilometri dal luogo dove si era aperta. “Non si dovrebbe tornare nel luogo dal quale ti hanno cacciato”, mi disse una volta. Eppure, dopo la morte di Deborah Beer nel 1994, sua compagna di vita e lavoro per lungo tempo, egli accettò infine l’offerta di Edgar Reitz[3] e tornò a stabilirsi nella sua terra natale, “ultimo naufragio su una costa inaspettata”.

Dopo il ‘ritorno’ nella sua incerta Heimat, per dirla con Reitz, Gideon – con molto impegno – si adoperò all’allestimento di questa sua ultima casa, un luogo così suggestivo per chi ha avuto occasione di visitarla. Fu lì che – pur essendoci conosciuti a Roma – ci incontrammo spesso, con una frequentazione famigliare interrotta solo dalla sua morte; fu lì che – durante una ‘perlustrazione’, svolta in un momento di pausa dalle nostre conversazioni in forma di intervista – osservai nello scaffale di una libreria bassa, posta nei pressi dell’accesso allo stretto balcone, un numero inusuale di copie, in varie lingue ed edizioni, dei libri di Flavio Giuseppe, comunemente appellato ‘Josephus’ dai lettori nord europei, e in particolare del celeberrimo libro sulla Storia della guerra dei Giudei contro i Romani.[4]

L’attrazione di Gideon per il grande storico ebreo dell’antichità mi incuriosì. Conoscevo allora piuttosto scolasticamente e superficialmente la peculiare vicenda di Josephus: ricordavo di aver sentito parlare (e poi di averne letto qualche pagina) dei suoi libri in anni lontani, un po’ per dovere, un po’ perché incuriosito soprattutto dal fatto che egli venisse accreditato come uno dei migliori narratori di storia dell’antichità. Ma non era (solo) alla storia che Gideon si interessava: la vicenda di questo ebreo palestinese del passato – volente o nolente – aveva infatti diverse affinità con la vicenda personale di Bachmann.

Non si trattava solo della comune discendenza, peraltro con venti secoli di distacco, dalla stirpe di Abramo, che Gideon riconosceva per se stesso senza troppa enfasi; tuttavia, è proprio a partire dalla ‘refrattaria’ identità ebraica di Bachmann e dal suo interesse per Josephus che vorrei partire per avanzare alcune riflessioni.

In primo luogo – ça va sans dire – Gideon nasce in una famiglia ebraica sui generis, anche se non di nobile tradizione sacerdotale, come era quella di Josephus.[5] I Bachmann – come anche probabilmente gli Strassburger, il ramo materno – erano ebrei tedeschi di insediamento non recente. Venivano da Warburg, una piccola cittadina della Westfalia, dove i primi ebrei arrivarono da Venezia attorno al 1559, impegnandosi nel tempo tra affari, finanza e commercio; al massimo della loro presenza, non superarono mai le 300 persone e alla vigilia delle persecuzioni antisemite – all’inizio degli anni 1930 – la Comunità contava 160 individui.[6]

Il nonno paterno di Gideon, Bernhard, nacque a Warburg nel 1866, figlio di Isaak e Marianne Hammerschlag. Da lì si spostò non di molto, a Göttingen, dove si sposò con una ragazza ebrea, anche lei originaria di Warburg, Ida Lina Wittenstein, dalla quale ebbe tre figli. Sua moglie, purtroppo, morì nel 1913, alla vigilia della prima guerra mondiale. Così, Bernhard decise di risposarsi: i primi due figli – Greta e Ernst, il padre di Gideon – erano già piuttosto cresciuti, ma il minore, Werner, non aveva ancora 10 anni. Scelse una donna del Nord, Sara Koppel: i due si sposarono nel 1920, sempre a Göttingen. A Göttingen nel 1897 era nato anche Ernstin tempo per combattere – sotto le bandiere dell’esercito del Kaiser – nella Grande Guerra, tedesco tra i tedeschi, ottenendo il grado di Gefreiter e venendo decorato con la Croce di Ferro. Ernst – che dopo la fine della guerra ereditò dal padre il mestiere di commerciante di grano – si allontanò invece un po’ di più dalle origini familiari di Warburg, andando a mettere su famiglia – con Bella Strassburger – nella cittadina di Heilbronn[7], a circa 300 chilometri a sud, nell’attuale Baden-Württemberg. Dove nascerà, nel 1927, Hans Werner Bachmann: Isaak generò Bernhard, Bernhard generò Ernst, Ernst generò Hans Werner…

L’identità ebraica dei Bachmann si potrebbe definire – utilizzando un termine italiano controverso e forse un po’ datato – piuttosto ‘laica’. Racconta in proposito Gideon:

Noi ebrei in Germania, in quegli anni, in primo luogo eravamo tedeschi, in secondo luogo ci consideravamo tedeschi, e solo infine acconsentivamo che eravamo sì tedeschi ebrei, che mantenevamo forse una certa identità – ad esempio celebravamo talvolta i nostri riti, così, per tradizione – ma che non ambivamo di distinguerci quasi in nulla dalla nazione che abitavamo. Neanche quelli più religiosi, e noi non eravamo tra quelli.[8]

La famiglia, tuttavia, dovette fare presto i conti con il nazismo avanzante e l’antisemitismo risorgente. I primi anni di vita del piccolo Hans Werner furono infatti proprio quelli in cui in Germania crebbe e si consolidò il clima di sempre maggiore ostilità verso gli ebrei, dalle leggi di Norimberga del 1934 in avanti.[9] Ernst e Bella si convinsero che il loro paese non era – o non era più – il luogo dove poter continuare a vivere, e concepirono tempestivamente – ahimè, senza troppi emulatori – quella che diventerà invece l’occasione della loro salvezza personale: l’emigrazione. Non sarà solo una fuga, verso un paese ospitale o verso l’ignoto: decideranno invece – più o meno consapevolmente – di trasferirsi in Palestina, grazie alla cultura sionista che Bella possedeva e che suo marito assecondò con una certa preveggenza.

I Bachmann – Ernst, Bella ed il piccolo Hans Werner – lasciarono così la Germania nazista nel 1936, alla volta del Medio Oriente. La Palestina di allora – coi suoi ampi confini, tracciati dalle potenze europee sulla base degli accordi segreti Sykes-Pikot del 1916 – era amministrata dalla Gran Bretagna, grazie al mandato ricevuto all’indomani della fine della prima guerra mondiale. L’insediamento in quei luoghi – nell’aprile del 1936 – non fu facile né scontato. Ernst e Bella – che erano stati un poco addestrati, prima della partenza, in corsi organizzati dalla ZOG, la Zionistische Ortsgruppe di Heilbronn[10] – dovettero riciclarsi per poter vivere e sopravvivere: si improvvisarono artigiani, lavorando alla fabbricazione di guanti di pelle con discreto successo, mentre Hans Werner dovette essere ospitato in una specie di collegio – o Kinderheim – in una località isolata nelle campagne palestinesi. I suoi genitori erano fuori tutto il giorno e c’era bisogno di qualcuno che accudisse il bambino, che oltretutto doveva proseguire la scuola – dalla quale in Germania era stato cacciato – ed imparare l’ebraico, cosa che i suoi genitori non fecero mai davvero.

Sarà in questo remoto luogo della Palestina – un posto bucolico e selvaggio, perso nei campi di agrumi, chiamato Megged – che il giovane Hans Werner esordirà scegliendosi un altro nome: Gideon. Il palese riferimento al Gedeone biblico[11] è però del tutto fuorviante. Racconta Bachmann:

Qualcuno potrebbe ipotizzare che il nome scelto allora fosse il primo segno della mia inculturazione ebraica, con un evidente richiamo eroico alle scritture sacre: ma non è stato così. Ora, il fatto è che i miei primi giovani compagni della vita in Palestina, in quel 1936, avevano tutti nomi ebraici. Non potevo non avere anch’io un nome come i loro nomi; potevo, anzi: dovevo sceglierne uno. Megged, questo posto dove vivevamo, era incredibilmente isolato: una casa tra aranceti, piccoli orti e dune, senza quasi nessun contatto con l’esterno. Ogni viaggio verso l’altrove era poco meno di un’avventura, da percorrersi con l’aiuto di ogni mezzo: asini, pullman, vecchie auto, talvolta il treno. Ci voleva un giorno intero per raggiungere Tel Aviv, dov’erano i miei genitori, che anche per questo motivo potevo visitare molto di rado, prevalentemente in occasione delle festività ebraiche. Mi sentivo terribilmente costretto e claustrofobico in questo luogo. Una volta la settimana, tuttavia, penetrava regolarmente nel nostro isolamento palestinese un uomo, con uno strano carretto: una piattaforma di legno – con ruote ‘retrattili’, per poter scivolare meglio sulla sabbia, dove si trasformava in una specie di slitta – trainata da un mulo. Era il nostro unico contatto col mondo, eccetto i segnali luminosi che la notte – in alfabeto Morse – scambiavamo coi lontani più prossimi. Ci portava posta (se ce n’era) e le merci non producibili nella nostra piccola autarchica comunità. Questo nostro Caronte sui generis si chiamava Gideon, ed io volevo essere come lui: andare nel mondo, viaggiare, comunicare. Così, ho scelto il suo nome per me.[12]

È un fatto – questo del nome cambiato – che mi ha sempre suggestionato: non solo perché, secondo l’antico adagio latino, nomen est omen, ma piuttosto – come amava scherzare Bachmann, invertendo le parole e giocando anche con la lingua di Cicerone – per il destino che opzioniamo quando, anche se accade a pochi, abbiamo la sorte di scegliere il nostro nome. Così, mentre Josephus – che nacque Yosef ben Matityahu – diventò Titus Flavius Iosephus per l'affrancamento e il conferimento della cittadinanza romana da parte dell'imperatore Tito,[13] Hans Werner mutò il proprio nome – un nome tedesco composto e piuttosto elegante – in quello di Gideon. Se non per l’anagrafe, almeno per la vita quotidiana. L’ebreo palestinese Yoseph si ‘latinizza’, il tedesco Hans Werner sembrerebbe invece ebraicizzarsi: come ingannano le apparenze...

Ma tant’è. Si potrebbe dissertare a lungo sull’identità degli ebrei tedeschi, specie di quelli vissuti nel periodo tra le due guerre. Amos Elon ha scritto in proposito pagine dense e bellissime, ricostruendo le complesse vicende di quasi due secoli di storia intensa e per molti versi felice, alla ricerca delle ragioni e degli entusiasmi che hanno forgiato quei singolari caratteri, da Moses Mendelssohn a Heinrich Heine, passando per Karl Marx, Albert Einstein e Bertolt Brecht. Così, se la storia dell’assimilazione è un processo che riguarda tutti gli ebrei europei, solo in Germania esso

riflette la complessità di un rapporto che alla fine diventò una sorta di identità. […] Il dualismo di tedeschi ed ebrei, due anime in un solo corpo, sarà la preoccupazione e il tormento degli ebrei tedeschi per tutto l’800 e i primi decenni del 900. In nessun altro paese dell’Europa occidentale questo dualismo fu così profondo e alla fine così tragico.[14]

L’integrazione – almeno apparente – nella comunità nazionale appariva comunque chiarissima: a parte quelli che avevano più o meno nettamente accantonato l’appartenenza religiosa, mi impressionò molto in proposito, ad esempio, guardare i volti fissati dalle fotografie di quegli ebrei che – alle soglie della catastrofe – frequentavano devoti la maestosa sinagoga berlinese di Oranienburger Straße, poi devastata – come tante, seppure non distrutta – nel pogrom del novembre 1938:[15] uomini in nulla distinguibili dai loro compatrioti, senza barbe ingombranti o ricciolute peyot, né lunghi pastrani neri, come i loro fratelli orientali. Racconta sempre Bachmann:

Ricordo ancora un curioso episodio accaduto un giorno mentre ero assieme al mio nonno paterno, Bernhard, ancora in Germania, prima dell’emigrazione. Eravamo per la strada quando scorgemmo in lontananza alcune figure nere inconfondibili di ebrei orientali, con i boccoli, questi cappelli bizzarri. Nonno Bernhard mi trasse un poco a sé, quasi mi dovesse protezione. Poi, indicandomeli impercettibilmente, aggrottò le narici inspirando, fece una mezza smorfia e – a voce bassa, ma in modo che potessi sentire – mi sussurrò: “Schlesischer Kopfbahnhof!” Schlesischer Kopfbahnhof era la famosa stazione della Slesia. Gli ebrei orientali che arrivavano a Berlino dalla Polonia, dalla Bessarabia, da altri paesi, insomma non so da dove, approdavano tutti a questa stazione. Erano associati a quel luogo, come per dire: puzzano, hanno l’odore di un altro tipo di mondo. Con questa musica e questa lingua dal suono per noi orrendo, lo yiddish, che adesso viene così spesso ‘romanticizzata’. Noi, ebrei tedeschi (o tedeschi ebrei), in fondo – antisemiti paradossali? – disprezzavamo allora piuttosto visceralmente quel mondo; e i tedeschi non ebrei cominciavano a renderci spesso e volentieri un crudele contraccambio.[16]

Il paradosso dell’ebraicità irrinunciabile eppure mancata (e per certi versi ‘rifiutata’) di Hans Werner alias Gideon si distende e si contrae a lungo e in luoghi diversi, come il mantice di una fisarmonica.

Durante l’infanzia in Germania, l’ebraicità è nascosta dietro le sembianze di una famiglia borghese e di un bambino viziato, diligente e tutto sommato conformista, avviato da suo padre alla passione per i trenini elettrici, paradossalmente frutto dell’ingegno nazionale tedesco della famiglia Märklin.[17] Dal balcone della casa di Bahnhofstraße, in una Heilbronn impavesata di bandiere con la croce uncinata, Gideon ricorda persino di avere tentato, un giorno, di fare il saluto nazista al passaggio del Führer, da fervente piccolo tedesco: sua madre glielo impedì, senza che egli – allora – ne comprendesse appieno il perché.

Gli anni palestinesi furono quelli della formazione, scombinata ed irregolare, tra scuola ebraica e collegio (Megged), con l’aggiunta dei periodi (obbligatori!) trascorsi nel kibbutz e l’esperienza del bar mitzvà, unica ed ultima partecipazione di Gideon ai riti della fede dei Padri. La vita palestinese, specie dopo l’inizio della guerra, accrebbe l’appartenenza di Gideon alla societas ebraica, ma non la esclusivizzò: fosse per la sua insofferenza al ‘collettivismo’ di qualunque bandiera, fosse per la curiosità del mondo, ma Bachmann cominciò già in quel tempo a precostituirsi la possibilità di andare altrove, chiedendo il rilascio di un passaporto alle autorità britanniche già nel 1943, in piena guerra mondiale.

Grazie a quel passaporto, nel 1947 – seguendo l’improbabile occasione del primo Festival mondiale della gioventù e degli studenti, per la pace, la solidarietà antimperialista e l’amicizia tra i popoli[18], promosso dalla neo fondata World Federation of Democratic Youth – Gideon partì per Praga e da lì per un originale itinerario nell’Europa del dopoguerra. Viaggerà coi trasporti militari, ‘camuffato’ da giornalista britannico, e pure ‘aiutato’ dalla rete ebraica della Brichah[19].

Bachmann è a Praga il 14 maggio 1948, quando verrà proclamata la nascita dello stato di Israele. È lì che sarà richiamato per combattere la prima guerra contro il blocco delle nazioni arabe. È lì che – con una arguta trovata linguistica degna delle sue abilità di poliglotta – riuscirà a ‘confondere’ l’uomo in procinto di rilasciargli il visto per andare ad arruolarsi in Israele, consentendogli invece di ottenere un irrituale – eppur valido – permesso del neonato stato di Israele per andare ovunque. In quell’estate del 1948, l’addetto dell’ambasciata di Israele a Praga – che gli stava scrivendo a macchina il lasciapassare per partire verso Israele – non conosceva benissimo l’inglese:

Prende il passaporto, va in un’altra stanza, torna indietro e mi chiede: “Come si dice in inglese per viaggiare verso Israele?” Per me fu come la luce di un flash, l’intuizione di un attimo. Così, invece di dire to travel to Israel, dissi: “Si dice for; a travel document for the State of Israel.” Così scrisse. Con questo documento mi hanno dato il visto per andare in America, il 23 luglio del 1948. Il 19 agosto sono entrato negli States.[20]

È il primo ‘gran rifiuto’ non solo di combattere nell’esercito, quanto piuttosto di legarsi ad una nazione, foss’anche ‘giusta’ come quella di Israele. Il richiamo alle armi – che impedirà poi per diversi anni a Bachmann, ancora coscritto, di far visita ai suoi genitori, invece cittadini del nuovo stato – significava l’alta probabilità di morire in battaglia, mentre egli voleva continuare – forse iniziare – a vivere. A differenza di Josephus, governatore militare della Galilea al tempo dell’assedio di Iotapata,[21] Gideon indossò in vita sua solo una divisa di fantasia,[22] realizzata ad hoc per viaggiare in Europa a guerra già terminata; eppure, come Josephus nella cisterna,[23] egli eserciterà ogni sagacia possibile per guadagnare la vita.

Negli States, Gideon arriva e si insedia quasi subito a New York,

la città con la più numerosa popolazione ebraica del mondo: New York, le cui strade, yeshivot, bancarelle, aziende riviste, fiere del cibo e rappresentazioni teatrali sono la somma e la sovrapposizione di tanti e diversi mondi ebraici, passati e presenti, che si intrecciano alla vita di milioni di non ebrei, contraddicendosi tra loro e creando un mosaico di identità dal sapore talmente americano da risultare quasi indistinguibile.[24]

Gideon si trova negli USA, anziché in Erez Israel, come molti altri suoi coetanei. È un po’ come Josephus che – dopo la sconfitta militare, la consegna al nemico, la prigione ed infine l’affrancazione – si trova a vivere a Roma. New York come la capitale dei padroni del mondo di allora? Eppure, anche lì prosegue una sua originale relazione con l’identità. Senza imbracciare armi, le trasporta seminascostamente per imbarcarle verso Israele, in casse con su scritto ‘macchinari agricoli’; impartisce lezioni serali nella lingua degli avi a quanti ricercano le proprie radici; apre infine, col consenso del governo di ‘laggiù’, una agenzia per viaggi dagli Stati Uniti verso Israele, che gli varrà anche una incoraggiante menzione sulla stampa newyorkese. Infine, ottenuto il divorzio da Yudka, si risposa: con Rachel, americana sì ma ebrea, fuggita dalla Polonia, figlia per di più di un importante leader del Bund[25]: da lei acquista la nuova cittadinanza a stelle e strisce ma soprattutto la possibilità di utilizzare il nuovo nome Gideon – scelto un tempo tra gli aranceti della Palestina – su un documento tutto intriso di novità. Ancora una volta, le vicende di Bachmann tornano a somigliare a quelle di Josephus: Gideon diventa cittadino del nuovo ‘impero’ statunitense, come anche Josephus diventò cittadino dell’impero di Roma.

Osserva acutamente Pierre Vidal-Naquet nel suo bel libro su Flavio Giuseppe:

Parafrasando le parole del grande intellettuale francese, potremmo chiederci che effetti abbia avuto l’’americanizzazione’ di Bachmann: in effetti, essa sembrerebbe essere stata piuttosto efficace, considerato che per diverso tempo è stata questa – ossia quella newyorkese – la sua più plausibile appartenenza sociale. In Europa poi, dove Gideon arrivò nel 1961 – dapprima per un anno a Parigi, poi a Roma, dove resterà stabilmente fino al 1994; ma anche in Inghilterra, dove passerà lunghi periodi nella campagna di Hurley, nel Berkshire – non sembrerebbe esserci stato grande utilizzo di quella primitiva radice. Sarà solo dopo l’89 e la successiva unificazione tedesca, nel 1990, che l’antica origine riemergerà, come un vecchio parente venuto da lontano dopo anni di assenza.

Con la nuova costituzione della Germania unita, infatti, il governo tedesco decise di restituire nuovamente la cittadinanza ai superstiti che l’avevano perduta negli anni bui del nazismo; l’articolo 116 della Legge fondamentale recita infatti: “Alle persone già cittadine tedesche che furono private della cittadinanza tra il 30 gennaio 1933 e l’8 maggio 1945, per motivi politici, razziali o religiosi, ed ai loro discendenti, dev’essere, a richiesta, nuovamente concessa la cittadinanza”. Ricorda Bachmann:

La notizia della cittadinanza restituita mi raggiunse in Inghilterra e fu piuttosto sorprendente. Qualcuno, neoconcittadino germanico come me, sottolineò allora con sarcasmo il legame tra passato e presente, riconoscendovi quasi una ‘dolce vendetta’ alla memoria di Hitler; altri ritennero la reintegrazione nel diritto poco meno di una bestemmia. Per me, la cittadinanza restituita significò soprattutto il primo passaporto tedesco della mia non breve esistenza, col nome di allora, Hans Werner, da me lungamente – e consapevolmente –obliato.[26]

Mi torna in mente la paradossale (eppure acuta) tesi esposta da Sartre nel suo noto pamphlet pubblicato nel 1946, quando in Europa la consapevolezza della tragedia immane della Shoah andava probabilmente ancora formandosi e quando non esisteva ancora uno stato col nome di Israele. In una delle più belle ed appassionate difese intellettuali dell’ebraismo e del diritto alla diversità, egli argomentò come l’ebreo fosse – suo malgrado – essenzialmente il prodotto storico dei suoi accecati persecutori, il frutto dell’irrazionale follia dell’antisemita che esprime la sua passione dissennata nell’odio contro un nemico intenzionalmente costruito:

Abbiamo visto che, contrariamente a un’opinione diffusa, non è il carattere ebraico a creare l’antisemitismo ma, al contrario, che è l’antisemita a creare l’ebreo. La causa prima è dunque l’antisemitismo, struttura sociale regressiva e concezione di un mondo prelogico. […] Abbiamo cercato di mostrare come la comunità ebraica non sia né nazionale né internazionale, né religiosa né etnica né politica: è una comunità quasi storica.[27]

Mi sembrò – quando lessi per la prima volta il libro, al principio degli anni ’80 – un’interpretazione ‘seducente’ ma forse un po’ estrema, legata a prospettive di cambiamento politico e sociale molto radicate nell’immediato secondo dopoguerra. Eppure, ripercorrendo oggi la storia di questo ebreo, l’analisi di Sartre mi appare drammaticamente fondata e per certi versi attuale, quasi un archetipo del ‘secolo breve’ e della Shoah: un’umanità dilaniata dalle guerre e dalle contrapposizioni, uomini e donne costretti dall’odio a difendersi per l’attribuzione di identità che non riconoscono o che gli appartengono – talvolta – solo per l’altrui volontà.

Ho fin qui provato a riconnettere alcuni fili dell’ebraicità ‘dispersa’ – o ‘diffusa’ – di Gideon Bachmann, sulla falsariga della sua ‘attrazione’ per la figura di Josephus. Mi sembra però infine necessario provare ad accennare – almeno per suggestioni – ad un ultimo tratto che secondo me associa profondamente questi due originali ‘figli di Israele’, pure tra loro così diversi e così distanti, nel tempo e nello spazio: ovvero, lo svolgimento – da parte di entrambi – di una vera e propria funzione ‘pontificale’. Non – evidentemente – nel significato religioso, quanto piuttosto nell’accezione, secondo l’antico etimo latino, di ‘costruttori di ponti’; di ponti tra culture, naturalmente.

Vidal-Naquet intitola un capitolo del suo libro a Josephus come ‘intermediario’:

Un ‘intermediario’ offre scarso interesse quando si limita ad essere il rappresentante d’un campo in seno ad un altro campo; e Giuseppe difendeva di fronte agli ebrei la causa dei suoi padroni romani. Ma a una seconda lettura, il discorso indirizzato ai romani attesta l’immenso orgoglio che Giuseppe annetteva al fatto d’essere ebreo. […] Da un lato c’è Roma, dall’altro ci sono gli ebrei: e in mezzo a loro c’è Giuseppe.[28]

Mi pare evidente che Bachmann, diversamente da Josephus, non ha avuto nessuna particolare attrazione né per la religione dei Padri né per l’appartenenza alla discendenza di Abramo. Eppure, la sua storia personale ed intellettuale è espressione di una azione costante di svolgimento della mediazione. Mi riferisco soprattutto al suo contributo alla cinematografia del Novecento: forse nessuno come lui – riprendendo la felice espressione coniata da Edgar Reitz, che ha definito Bachmann “il Vasari del cinema”– è stato così efficace nel ritrarre i protagonisti di quel mondo,

con il suo udito e la sua sensibilità alla parola. Quando penso a quegli anni in cui Gideon si presentava ad ogni festival cinematografico del mondo e faceva le sue registrazioni vocali ovunque, vedo questa strana immagine di un pescatore che lancia di fronte a sé la sua canna da pesca. In effetti, Gideon aveva costruito un marchingegno dall’aspetto assurdo: lo portava appeso al collo, collegato al microfono da una sorta di braccio molto allungato, che aveva poi fissato alla propria schiena. Così, passando sopra alla folla e ai giornalisti che spingevano, poteva portare il suo microfono nelle immediate vicinanze degli artisti che lo interessavano. Gideon li poteva così origliare a distanza ravvicinata senza gettarsi nella mischia ostile del giornalismo quotidiano.[29]

Intervengo sommessamente in un campo specialistico; ma le centinaia di conversazioni in forma di intervista – da lui raccolte nel corso di una carriera a cavallo tra due secoli – hanno consentito anche al più estraneo o distratto dei suoi ascoltatori di cogliere emozioni e situazioni dei protagonisti del cinema del Novecento; ai lettori delle sue interviste, di riflettere su molti aspetti non scontati del mondo della ‘settima arte’ (e oltre).[30] Dare voce a quei protagonisti – che non mi sembra gli abbiano ancora riconosciuto il giusto tributo – è stata un po’ la sua missione: dal tempo del suo insperato esordio alla radio newyorkese – con le interviste a personaggi noti e meno noti del cinema di allora – a Ciao, Federico!, col ritratto inusitato di un grande regista al lavoro; per passare alle immagini – oggi di nuovo integralmente accessibili – di Underground New York, dove è possibile cogliere i prodromi americani dei fermenti giovanili (e non solo) degli anni ’60.[31] Così, per certi versi, Bachmann ha compreso e spiegato Pasolini (e la sua lettura della realtà) agli italiani assai meglio – paradossalmente – di quanto essi stessi non abbiano saputo fare.[32]

Grazie anche alla sua straordinaria padronanza delle lingue, è stato capace di parlare e di far parlare. Grazie alla sua sensibilità intellettuale, ha consentito ai suoi contemporanei – mediante la voce di molti artisti – di comprendere meglio e più in profondità il proprio tempo, sia sulle frontiere che nelle retrovie.

Non so se gli sarebbe piaciuto questo paragone conclusivo, lui che non amava particolarmente le allusioni alle scritture ebraiche (che pure conosceva tutt’altro che superficialmente); eppure a me – sospeso il confronto con Josephus – viene alla mente un personaggio importante che nella tradizione religiosa di Israele viene qualificato per eccellenza come mediatore: Aronne. Aronne è il fratello di Mosè che però – come sappiamo – è balbuziente e si affida alla parola del fratello per parlare col Faraone. Interprete e per questo mediatore.

L’ebraismo ha ragionato a lungo sul dualismo tra Aronne e Mosè, tra la ricerca della pace (o mediazione) e il rigore della legge e dell’osservanza;[33] ha commentato in proposito Jonathan Sacks: “Un mediatore ha doni diversi da un profeta, un liberatore, un legislatore: è forse più modesto, ma a volte non meno necessario.”[34] Gideon Bachmann non riteneva di essere interprete dell’Onnipotente; è stato però portavoce, mediatore e interprete di molti personaggi del suo tempo, capace di ascoltare ma anche di “parlare bene”, come dice di Aronne il libro dell’Esodo (Es. 4, 14). Ha avuto in sorte non solo il dono di una bella voce, ma anche “un udito così fine che gli ha aperto la pronuncia e il suono a rare colorazioni linguistiche, che egli ha potuto perciò riprodurre. Sicuramente, questo talento sarà stato uno dei segreti della sua tremenda capacità di comunicare.”[35]

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