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La solitudine del poeta davanti al giornalista. Annotazioni sulle interviste di Gideon Bachmann a Pier Paolo Pasolini

Nella Prefazione dell'intervistato che Pier Paolo Pasolini volle inserire ad apertura delle conversazioni con Jean Duflot (Entretiens avec Pier Paolo Pasolini, Belfond 1970), lo scrittore-regista dichiara subito, a scanso d’equivoci, di essere “uno di quelli che non amano, anzi, per dir meglio, detestano di essere intervistati”. Nei versi della poesia Una disperata vitalità (1963), la figura del giornalista diviene ‘un cobra’, un serpente gonfio di veleno e di malignità, un nemico alle cui domande il poeta non si sottrae, mentre la situazione di disagio e malessere sembra quasi favorire la riesumazione di visioni e scenari dei suoi drammi intimi. In realtà anche riguardo alle interviste, come nei confronti di altri argomenti, Pasolini si contraddiceva. Si contraddiceva perché nonostante affermasse di detestarle – ne ha (fortunatamente) concesse moltissime e a giornalisti di ogni livello – non sottraendosi mai né al rituale delle conferenze-stampa né a quello dell'incontro con il singolo corrispondente di un giornale quotidiano o periodico, italiano o internazionale. Come affermava egli stesso nella Prefazione le considerava occasioni comunque utili per favorire la diffusione delle proprie opere e delle proprie parole che dovevano, pedagogicamente, introdurle, chiarirle, illustrarle, anche in senso, appunto, didattico.

Nella dialettica fra Pasolini e l'industria culturale del suo tempo, l'intervista diviene quasi un genere accessorio alla saggistica, alla critica, tant’è vero che lo scrittore-regista scrisse anche delle auto-interviste (come quella famosa sul film Salò) e spesso ‘diresse’ l'intervista nel senso che talvolta non rispose alle banali o sciocche domande che gli venivano poste, ma rispose ad una domanda intelligente e acuta che non gli era stata posta, così da sfruttare nel modo migliore quei pochi minuti anziché perderli smarrendosi nella mediocrità dell’interlocutore. Le interviste furono per Pasolini non soltanto un veicolo di promozione pedagogica ma anche una proficua pausa di riflessione autoanalitica dove l’autore tentava di guardare se stesso e la propria opera a distanza di oggettivarla.

 

Foto 1. Gideon Bachmann e Pier Paolo Pasolini

 

Fra i tanti giornalisti che lo incontrarono uno dei più fedeli e assidui fu Gideon Bachmann. Negli anni '60 e '70 Bachmann fu sempre al posto giusto nel momento giusto: ebbe il tempismo e l'intelligenza di decidere di seguire la lavorazione di film, poi divenuti leggendari (basti citare soltanto 8 ½ di Fellini), non soltanto come giornalista indipendente, ma anche come brillante fotografo e in alcuni casi perfino come regista di documentari. Il suo Ciao, Federico! (1970), realizzato durante la lavorazione di Fellini Satyricon (1969), per esempio, costituisce un documento unico per comprendere il modo di lavorare di Fellini e per vedere come dirigeva gli attori e il dominio che aveva del set come grande burattinaio e sultano. Al tempo stesso il film di Bachmann ne offre un ritratto vivo e spregiudicato, anche se non sempre riesce a coglierne tutta la complessità.

Il giornalista collaborava a quotidiani quali Neue Zürcher Zeitung, Der Tagesspiegel, Il Messaggero e Daily American, a periodici come Arts Guardian, Playmen, Die Zeit, e a periodici specializzati come Film-Hannover, Film Quarterly, Il Dramma e Filmcritica. Pasolini sapeva che farsi intervistare da Bachmann significava trovare un canale privilegiato per rivolgersi al pubblico statunitense e tedesco, oltre che a quello italiano, e accettava sempre di rispondere alle sue domande, magari dopo essersi premunito di sapere quale fosse la testata a cui era destinata l’intervista, per informarsi sul genere di pubblico a cui stava parlando attraverso la penna di Bachmann.

Dopo aver già partecipato ad alcuni incontri pubblici (come la presentazione del film Accattone alla Mostra del cinema di Venezia del 1961 dove fu organizzata una tavola rotonda con alcuni fra i più importanti scrittori dell'epoca, da Gadda a Moravia, da Bertolucci a Parise) il giornalista ha incontrato Pasolini per un'intervista di un certo respiro per la prima volta nel 1963 e ha intensificato la sua frequentazione dello scrittore-regista negli ultimi anni della sua vita, quando l'accentuarsi della fama (grazie alla collaborazione con il Corriere della sera e al vasto successo dei film della Trilogia della vita) sembrava paradossalmente accompagnarsi ad una solitudine ancora più profonda che in precedenza. Stranamente Bachmann non ha mai raccolto in volume le sue interviste e per fortuna nel corso del penultimo anno di vita del giornalista ci ha pensato Riccardo Costantini a ordinarne una scelta ragionata in un libro prezioso Polemica politica potere. Conversazioni con Gideon Bachmann, edito da Chiarelettere nel 2015.

 

Foto 2. Bachmann con Roberto Chiesi (a sinistra), presentazione di Polemica. Politica. Potere, Cineteca di Bologna (Novembre 2015)

 

Lungo tutti questi incontri, disseminati in oltre un decennio, si avverte sempre il rispetto di Bachmann per il suo interlocutore, la volontà di rispettarne il pensiero e di non strumentalizzarlo, anche se spesso Bachmann appare disorientato dalla complessità dello scrittore-regista e, come confermano le sue pagine diaristiche e critiche sul film Salò, non sembra sempre in grado di analizzarne la ricchezza espressiva in tutte le sue sfumature e contraddizioni. È lo stesso Pasolini, in una delle prime interviste (18 agosto 1963) a mettere in luce le differenze culturali fra lui e il proprio interlocutore:

Non riusciamo a far coincidere i nostri linguaggi perché evidentemente lei proviene da una cultura molto diversa dalla mia. Lei proviene dalla cultura di una nazione estremamente unitaria. Nella società americana, come in fondo anche nella società inglese, gli estremi politici non sono così lontani come in Italia. […] In un mondo come il mio essere impegnato politicamente è ancora fondamentale: in una nazione che è stata fascista fino a vent'anni fa e in cui permane ancora del fascismo essere artista significa obiettivamente essere impegnato.[1]

Leggendo le trascrizioni di queste interviste (che il giornalista rielaborava a seconda della testata cui era destinata) emergono molti elementi interessanti. Per esempio, l'attenzione di Bachmann per il rapporto con quella parte dell'opinione pubblica che non nascondeva la propria ostilità nei confronti del poeta-regista fa emergere l'attitudine coriacea di Pasolini che gli risponde di non accettare nessuna sorta di intimidazione, quindi di non prendere in considerazione la volgarità e la violenza di certe reazioni contro di sè e la propria opera.

Rimangono documenti di straordinario valore, in particolare le interviste e i filmati che ha realizzato sul set di Salò nella primavera del 1975. Come racconta nelle pagine del suo diario, Bachmann aveva accesso privilegiato al set anche perché marito di Deborah Beer, autrice delle bellissime fotografie di scena del film. Bellissime perché non sono mai il mero equivalente delle inquadrature del film, ma esprimono sempre lo sguardo personale di una fotografa che riuscì a decantarne la complessità e il misero cogliendo quelle azioni, quei gesti, quegli sguardi, quelle luci dove si imprimeva la dimensione visionaria della ‘macchina infernale’ di Pasolini.

Le interviste filmate di Bachmann a Pasolini sono finora conosciute soprattutto grazie al film di montaggio di Giuseppe Bertolucci, Pasolini prossimo nostro (2006), purtroppo rimasto inedito in Germania, mentre le interviste sono uscite in diverse pubblicazioni fin dai tempi in cui furono rilasciate. Sempre a proposito di Salò viene confermata l'importanza che Pasolini attribuiva ad una frase aggiunta al copione (che era un work in progress) e che si può udire anche dalla sua voce in un'intervista audio di Bachmann:

In una società consumista dove ci viene dato un falso senso di libertà perché ci viene improvvisamente consentito di fare le cose che sono sempre state un tabù, siamo maggiormente soggetti a repressione perché, come dice uno dei personaggi nel mio film, in una società in cui nulla è permesso si può fare qualsiasi cosa, ma in una società in cui solo alcune cose sono consentite si possono fare soltanto queste cose. Quando Curval dice che siamo tutti Dio sulla Terra, quello che vuole veramente esprimere è la falsa liberazione della permissività del consumismo, l'idea che ciascuno deve lottare per un più elevato standard di vita, che tutti dobbiamo lottare per ‘l'uguaglianza’ di quello che tutti dobbiamo diventare, come nel mondo degli affari. Non è questo che voleva Hitler? Oggi l'unica differenza è che tutti noi, ciascuno di noi, vuole diventare un piccolo Hitler, un piccolo Dio sulla Terra.[2]

Questa frase racchiude una sintesi esemplare della visione che Pasolini esprimeva nella sua critica della modernità – i testi poi raccolti nei volumi Scritti corsari (1975) e nel postumo Lettere luterane (1976). Dopo tanti anni di battaglie, sostenute anche per la liberalizzazione dei costumi e della morale, dopo un impegno intellettuale e artistico profuso contro il tumore del consumismo lo scrittore-regista dovette verificare il fallimento di tutto ciò nell'identità del suo stesso pubblico di spettatori e lettori popolari che avevano accettato la massificazione. Nella concessione di alcune libertà che il 'nuovo ordine' degli anni '70 aveva lasciato alle masse si celava appunto il grande inganno, la grande trappola di una falsa liberalizzazione che concede spazi di libertà in effetti condizionati e privi di reale significato e utili a rientrare strategicamente nella catena di sfruttamento e mercificazione. Quando Pasolini cita il desiderio dei singoli di diventare dei piccoli Dio in terra preannuncia già il dilagare del narcisismo incondizionato e criminale degli anni a venire. In seguito preferirà eliminare dall'edizione definitiva del film la frase che, nell'estratto da noi riportato, attribuisce ad uno dei personaggi di Salò, e si è indotti a credere che abbia fatto la scelta migliore: il senso è rimasto così nascosto nelle pieghe del film e lo spettatore deve decifrarlo da solo, senza l'aiuto didascalico dell'autore.

Dalle interviste di Bachmann affiora anche la disperata resistenza che Pasolini voleva opporre, nonostante tutto, alla coscienza che ogni battaglia civile della sua generazione fosse stata un fallimento e proprio la coscienza di tale fallimento sarebbe dovuto essere il soggetto di un documentario che purtroppo Bachmann non ha fatto in tempo a realizzare a causa della tragica morte improvvisa di Pasolini.

Come si è detto, emerge dalle interviste e anche dalle pagine del diario, la solitudine di Pasolini. È la solitudine paradossale di un artista che in quel periodo è all'apice del successo e occupa un ruolo centrale nell'industria culturale i cui film vengono visti da milioni di spettatori nelle sale (come oggi sarebbe impossibile che accadesse), i cui scritti provocano sempre ampi dibattiti, ma che, nella sua critica al presente, viene più contestato che approvato. Oggi che il pensiero di Pasolini è condiviso in modo così unanime – non senza subire continue mistificazioni, manipolazioni e banalizzazioni – è bene ricordarsi di quella solitudine e della sincerità irriducibile da cui nasceva.

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Permalink: https://www.lettereaperte.net/artikel/numero-52018/397

Foto: © Marie Falke