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Nota introduttiva

Nella sua ultima raccolta (La pura superficie, Donzelli, 2017), Guido Mazzoni afferma che "la politica comincia quando non esistono più eventi illeggibili o pure vittime, quando diventa giusto morire e soprattutto uccidere in nome di qualcosa". Immediatamente aggiunge: "anche se oggi non osiamo più pensarlo, anche se oggi non oseremmo scriverlo, o lo faremmo solo in una poesia." Queste considerazioni hanno chiaramente un valore relativo, oltre che (volutamente?) polisemico. Basti pensare alle numerose reazioni suscitate in Europa e in Nordamerica dagli attentati terroristici degli ultimi anni, dalle recenti affermazioni di Trump sugli interventi militari statunitensi in Iran o, ancora più di recente, dalle dichiarazioni rilasciate da Macron in merito alle responsabilità dei manifestanti e all’intensificarsi della violenza da parte delle forze dell’ordine. Ciò detto, le frasi di Mazzoni possono essere interpretate, oltre che come una provocazione, anche come un invito a ripensare i rapporti tra le parole e le cose, la letteratura e la realtà circostante, in una prospettiva diacronica e transnazionale, e soprattutto alla luce di quanto è stato prodotto, sul piano simbolico e dell’esperienza, dall’affermarsi delle società capitaliste avanzate nel mondo occidentale.

Come osserva giustamente Roberto Chiapparoli (in Dove va la poesia?, a cura di Mauro Ferrari, Puntoacapo, 2018), se anche solo negli anni ’90 qualcuno avesse parlato di tesaurizzazione delle piattaforme, digitalizzazione delle esistenze, economia della condivisione o reddito di cittadinanza, “avremmo pensato fosse un fanatico di fantascienza o un illuso romantico”. L’idiosincrasia costitutiva del contesto storico-culturale in cui siamo immersi nel ventunesimo secolo, invece, ci costringe, da un lato, ad interrogare quotidianamente e in modo frontale il ribaltamento di paradigmi ormai in atto, dall’altro, a ridefinire una volta di più le categorie estetiche ed interpretative dominanti, facendo qualcosa che spesso si impara proprio dai libri: accogliere le antinomie, senza per forza cercare di risolverle. Quanto allo specifico della scrittura in versi, è come se, all’assunto secondo cui non sarebbe più possibile praticarla dopo Auschwitz (Adorno), se non per parlare di Auschwitz – o, in altri termini, del dibattito epistemologico a cui il segno-Auschwitz sembra aver imposto orientamenti irreversibili (Primo Levi) –, si fosse progressivamente sostituita l’incapacità di farvi ricorso, senza ponderarne in maniera quasi sistematica la portata testimoniale.

Oltre che ad incoraggiare un esame approfondito dei modi e delle funzioni del discorso poetico nello spazio pubblico a partire dalla seconda metà del Novecento, il manifestarsi ed il graduale acuirsi di un tale fenomeno parrebbe giustificare indagini di ben più ampio respiro, volte sia ad esplicitare le modalità attraverso le quali i rapporti tra poesia e Storia si sono configurati nel corso del tempo, sia a stabilire in che misura la componente documentaria della scrittura poetica possa considerarsi quale tratto fondamentale – secondo alcuni studiosi addirittura “organico” (cf. Miriam Trinh) – di un genere tanto codificato, quanto permeabile alle ibridazioni. È proprio intorno ad una tale, duplice intenzione che si articolano gli interventi di questo numero di lettere aperte. I contributi qui accolti, infatti, suggeriscono tutti degli spunti utili quanto all’approfondimento delle piste appena abbozzate e, pur limitandosi al campo disciplinare dell’italianistica, facendo ricorso alla pratica dei case studies, invitano a cogliere la portata metonimica di riflessioni suscettibili, evidentemente, di essere estese a numerosi altri ambiti.

Nelle pagine seguenti, se Alessio Panichi (Baltimora) sceglie di ritornare alle nozioni di “verità”, “menzogna” e “simulazione” in Tommaso Campanella, per problematizzarne la portata o farle dialogare con il pensiero di Machiavelli, insistendo sulle linee di continuità, anche attraverso il commento mirato di alcune “poesie filosofiche”, Lorenzo Marchese (L’Aquila), dal canto suo, fornisce un’introduzione complessiva alla produzione poetica di Primo Levi, con l’obiettivo di studiarne l’evoluzione, comprenderne la funzione – anche “speculativa”, per l’appunto, e nell’accezione più nobile dell’aggettivo – , ma soprattutto determinarne la natura, sulla base di una proposta di periodizzazione che tende a configurarsi come una vera e propria proposta di metodo. Attraverso il recupero del corpus poetico di Sciascia – come quello di Levi, frequentemente subordinato ad una produzione ben più canonica, seppur per ragioni distinte –, Matteo Cantarello (Williamsburg) fa dei versi presi in esame una sorta di controcampo privilegiato delle prose dell’autore, alludendo, ad esempio tramite l'espediente del poem-document, all’esistenza di un legame imprescindibile fra silenzio, pudore e censura. Non è escluso che questi concetti possano essere a loro volta utilizzati come dei prismi, grazie a cui indagare le nozioni di “documento”, “traccia” e “relitto” nell’epoca in cui viviamo: a ben guardare, Marilina Ciaco (Milano) non manca di sottolinearlo, in un’analisi dettagliata e originale di Glossopetrae di Simona Menicocci, raccolta o componimento-valigia, che dir si voglia, tesa/o a mostrare come una delle specificità del discorso poetico (oggi) consista proprio nel fatto di non sapersi pensare, se non quale costruzione “intrinsecamente sovraindividuale”. In un certo senso, una constatazione analoga traspare dal saggio di Roberto Binetti (Oxford): mettendo in evidenza la componente insieme “lirica” e “storiografica” di Historiae di Antonella Anedda, questi affronta proprio l’ambivalenza di una “forma” e di un “genere” caratterizzati da tanto vigorose quanto ricorrenti oscillazioni semantiche fra enunciazioni (o memorie) personali e collettive, momenti di introspezione e condivisione, dunque – più in generale – dimensione pubblica e sfera privata. Come Ciaco, nel suo articolo Binetti partecipa inoltre alla decostruzione di un luogo comune, che è stato a lungo federatore: quello secondo cui, per parafrasare Mengaldo, la poesia scritta dalle donne sarebbe votata all’informale, priva di qualsiasi profondità d’analisi storica, in qualche modo sprovvista di ogni possibile orientamento politico destinato a suscitare azioni di tipo concreto.

Proprio alla performatività, oltre che all’aspetto materico e reificante del linguaggio poetico, dedica ragionamenti determinanti Matteo Cavalleri (Bologna). Il suo è un testo teso ad indagare la Resistenza, non quale "episodio", ma come evento che non smette di avvenire, in virtù del tipo di trasformazione che impone a chi vi prende parte. Se, come osserva Cavalleri attraverso Zanzotto, "il soggetto resistente [...] non assurge ad un livello di sovraesistenza a partire da un'aprioristica nobiltà di spirito" è perché l'uomo - verrebbe da dire "per definizione" - "si concreta, approda a e proviene da, viene alla presenza nell'intreccio di vettori temporali e spaziali", in un suo percepirsi che è, prima di ogni altra cosa, "frutto di una continua adesione incerta". Leggendo Cavalleri nei giorni in cui si celebrano i 75 anni dalla liberazione di uno dei campi di sterminio più emblematici del Terzo Reich,  è normale domandarsi se non sia possibile o opportuno dilatare l'area perimetrata della Resistenza con la R maiuscola, per far sì che un processo antropologico della stessa entità di quello di cui è all'origine possa finire col riguardare qualsiasi forma di "resistenza", se desunta da una rottura che non chiede di essere riparata, e forse nemmeno risarcita, quanto piuttosto "abitata". Una cosa almeno è certa: in quell'auspicare di saper "raccogliere il gemito della ferita e la responsabilità che questo comporta" su cui Cavalleri insiste nelle sue ultime righe, noi cogliamo la complessità e l'urgenza di un gesto storicamente determinato, d'accordo, ma non contingente stricto sensu, che sembra negarsi con vigore ad ogni  eventuale semplificazione - e col quale Anne-Isabelle François (Parigi) sceglie di fare i conti, per mezzo di un dispositivo che è anche un po' il manifesto della rivista che lo ospita. Non è esagerato dire che la ricerca e la determinazione del gesto in questione, del valore che ha rappresentato e che può continuare a rappresentare, quantomeno in alcune circostanze, ci hanno convinti della pertinenza del tema su cui abbiamo deciso di focalizzarci. Quanto alla pluralità ed all'originalità delle risposte che la nostra decisione ha suscitato, quelle sono dipese dal fortunato dialogo che si è progressivamente venuto a creare tra voci diverse, riunite intorno a un "sentire" di cui non abbiamo fatto altro che cercare di assicurare, nei limiti del possibile, una certa coesione interna, tematica e di registro.

 

How to cite | Come citare: Furci, Guido/Göschl, Albert (2019), "Nota introduttiva." In lettere aperte vol. 6, 5-7. [permalink: https://www.lettereaperte.net/artikel/numero-62019/426]

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