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"Bello è il mentir, se a far gran bene si truova". Verità, menzogna e simulazione negli scritti di Tommaso Campanella

 

Il saggio prende in esame le riflessioni svolte da Tommaso Campanella attorno ai concetti di verità, menzogna e simulazione. In particolare, il saggio fa luce sulle ragioni di fondo, tanto etiche e politiche quanto teologiche, della tesi campanelliana che la simulazione della pazzia da parte di David, Solone e Bruto non è un peccato. Questa tesi è ulteriormente spiegata attraverso l'analisi e il confronto con le affermazioni compiute da Niccolò Machiavelli a proposito della scelta di Bruto di fingersi pazzo.  

This essay focuses on Tommaso Campanella's thoughts on truth, falsehood, and simulation. More specifically, the essay sheds light on the ethical, political, and theological underpinnings of Campanella's thesis that David's, Solon's, and Brutus's simulation of madness is not a sin. Such a thesis is further explained by comparing it to and examining Niccolò Machiavelli's assertions on Brutus's choice to pretend to be mad.

     

1. Liceità del mendacio ed esigenza di verità

La questione della testimonianza è organicamente connessa nella prima età moderna al tema della simulazione e dissimulazione, che rappresenta a tutti gli effetti uno dei tratti costitutivi della cultura cinque-seicentesca. Per lungo tempo oggetto di scarsa considerazione (e diffidenza moralistica) in sede storiografica, questo tema si è progressivamente imposto all'attenzione degli studiosi più avvertiti, a partire perlomeno dalla pubblicazione dei fortunati e giustamente celebri volumi di Delio Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento, e Leo Strauss, Persecution and the Art of Writing, le cui prime edizioni risalgono rispettivamente al 1939 e al 1952. I volumi hanno poi dato origine a due filoni di ricerca specifici e distinti, anche se per certi versi contigui e convergenti: l'uno dedicato al fenomeno del nicodemismo e attento al panorama religioso cinquecentesco,[1] l'altro rivolto al mondo grande e terribile della politica seicentesca.[2] A questa messe di studi va riconosciuto l'indubbio merito di aver fatto luce su un elemento decisivo: se è vero che la pratica della simulazione e dissimulazione occupò le menti degli studiosi e fu al centro di un dibattito di lungo periodo, il cui svolgimento finì col tracciare un vero e proprio itinerario culturale, che dalla Firenze di Niccolò Machiavelli giunse fino alla Londra di Francis Bacon passando per la Napoli di Torquato Accetto;[3] è altrettanto vero che tale pratica abbandonò ben presto il campo sereno della riflessione morale o politica per fare il suo ingresso in quello, ben più agitato e drammatico, della realtà effettuale.[4] Detto altrimenti, le tecniche simulatorie e dissimulatorie, messe a punto per schivare o parare i colpi della censura inquisitoriale e della repressione politica, ispirarono sia la condotta privata che i modelli di azione collettiva e guidarono la mano di molti scrittori nel vergare le pagine dei loro libri, come mostrato, fra le altre cose, dall'uso retorico del silenzio e dal lavoro accorto sul piano dell'intertestualità.[5] Giova però fare una precisazione in proposito: sarebbe un errore ritenere che queste tecniche rispondessero soltanto a esigenze pratiche e immediate di autodifesa; il loro utilizzo era finalizzato anche a permettere la diffusione di concetti e messaggi che miravano o spronavano alla ricerca del vero, nonché l'avvicinamento graduale e per via esoterica dei non iniziati a un certo nucleo di verità. Stando così le cose, si capisce che la testimonianza e, più in generale, l'atto di compiere affermazioni su delicate e scottanti questioni teologiche o politiche acquisirono uno statuto complesso e problematico fra sedicesimo e diciassettesimo secolo - cioè in una fase storica che vide non pochi studiosi rispondere affermativamente all'interrogativo circa la liceità del mendacio, pur vincolandola a precise condizioni e circostanze.[6] Ebbene, al novero di questi studiosi appartiene Tommaso Campanella,[7] il cui percorso biografico e intellettuale, se osservato da questa prospettiva, è degno di interesse per almeno due ordini di motivi: da un lato, deve la sua durata al ricorso alla simulazione della pazzia, che, come noto, sottrasse il filosofo di Stilo a morte certa e prematura; dall'altro lato, mostra come la giustificazione sul piano teorico di questo ricorso conviva con la tesi che la verità è e non può non essere l'orizzonte di riferimento degli uomini. Ed è proprio questo secondo ordine di motivi a occupare le pagine del presente saggio, volto dunque ad analizzare quei brani degli scritti campanelliani che concernono sia il problema della menzogna e dei suoi rapporti con la verità, sia la legittimità della simulazione della pazzia.

2. L'eccezione alla regola

Campanella si è confrontato con questo problema fin dalla composizione del giovanile Epilogo magno, che, stando a quanto egli stesso ricorda nel De libris propriis et recta ratione studendi syntagma, fu ultimata a Napoli nel 1598 (cf. Campanella 2007, 43). Nel venticinquesimo discorso del sesto (e ultimo) libro dell'Epilogo, riguardante appunto la verità e i suoi contrari, il filosofo calabrese traccia le linee guida della sua interpretazione complessiva, formulando un insieme di considerazioni che sarà ripreso e sviluppato nelle opere successive. Una di queste considerazioni, posta (non certo a caso) in apertura del discorso, mostra che la riflessione campanelliana, a prescindere dalle tematiche affrontate, si svolge avendo di mira la dimensione del vivere associato, la tenuta e le sorti della res publica. Campanella sottolinea che la verità, consistente nel "dire quel che è ‹come egli è› et quel che non è com'ei non è", si configura come "un altro capo di virtù, conservativa del commune". In altre parole, la conservazione del corpo sociale dipende dalla fiducia reciproca fra le sue diverse parti costitutive, la quale dipende a sua volta dalla verità ed è perciò messa a repentaglio, anzi è infranta dalla diffusione della pratica della menzogna. "Ma nel corpo commune, scrive Campanella, fa bisogno che l'un huomo all'altro dica il vero: altrimenti il mercante non crederebbe all'agricola, né il duce a soldati, né il discepolo al mastro, né il figliuolo al padre, et così si perderebbe il commercio humano". Forte di questa convinzione, Campanella passa a elucidare brevemente i due vizi che, per ragioni opposte e antitetiche, contrastano la virtù della verità. Il primo vizio nasce "dall'impurità dello spirito", che, ingannato dal miraggio di un utile "breve et falso", non fissa lo sguardo sulla "verità eterna", bensì su quella "humana di poca durata". Esso è rappresentato da colui che, dicendo "le cose altrimenti che sono", è "bugiardo et falso", a proposito del quale Campanella compie un'osservazione fugace ma interessante, poiché suggerisce come la verità abbia ai suoi occhi una duplice valenza conservativa, tale cioè da interessare tanto la vita collettiva quanto l'esistenza dei singoli. Il filosofo prende al riguardo una posizione netta e recisa, che sembra non lasciare spazio alcuno a possibili eccezioni: colui che mente "è infelicissimo animale, perché annichila sé stesso facendo et dicendo quello che non gli è nell'animo, et riducendo l'essere al non essere".[8] Dico "sembra" perché, in realtà, una eccezione esiste e si verifica per Campanella quando il bugiardo è tale solo in apparenza, nel senso che mente al fine di arrecare giovamento agli altri e fare il loro bene, perseguendo quindi uno scopo i cui effetti sono contrari a quelli scaturiti dalle bugie vere e proprie. Scrive infatti Campanella:

Si può mentire, se pur ciò è mentire, come donando il medico al fanciullo la medicina amara acciò la beva dice ch'ella è dolce, havendo riguardo all'effetto dolce. Però, a chi ben mira, non è bugia, altrimenti le parole e le favole e le metafore trovate da Santi e savij per ammaestrare sarebbono bugia. (Campanella 1939, 554s.)

Ho detto poco sopra che queste considerazioni, al pari di altre formulate negli scritti giovanili, sono destinate a riemergere in opere più tarde e mature, rappresentando perciò un'acquisizione definitiva del pensiero campanelliano. Per averne pronta conferma, basta leggere l'Articolo ii della Rhetorica, in cui l'autore risponde a sei argomenti contro la propria tesi che la retorica è strumento del legislatore volto a persuadere e dissuadere e avente per oggetto il bene e il male, non il vero e il falso, che ricadono nel dominio della dialettica. La retorica è "ars instrumentalis ad suadendum bonum et dissuadendum malum nobis", come confermato dal fatto che l'oratore influenza gli animi degli ascoltatori e muove innanzitutto gli affetti, "quod non fieret, si ob verum certaret. Affectio enim non in verum, sed in bonum fertur". Ciò non significa però che la retorica ignori o trascuri la differenza tra verità e falsità, né tanto meno che conceda, per così dire, pieno diritto di cittadinanza alla menzogna. Replicando a coloro i quali sostengono che gli uomini possono, in pericolo di morte e per diritto naturale, liberarsi in qualunque modo e devono quindi "uti rhetorica, et mentiri, et mendacia fucare", l'autore obietta che non è lecito all'uomo onesto difendersi calunniando e mentendo. Egli può tacere le sue colpe e ciò che non gli è chiesto in forma legale, oppure ricorrere all'anfibologia qualora non sia tenuto a confessare il vero, "non autem expresse mentiri", conclude Campanella (1954, 715, 720-724, 728). Il quale tuttavia sfuma e problematizza il quadro appena delineato rispondendo al quarto argomento, che mette in luce alcune circostanze in cui la menzogna ha implicazioni benefiche e positive. È significativo che l'autore, nel tratteggiare questa obiezione, ricorra all'immagine (di ascendenza platonica e lucreziana) del medico che inganna l'ammalato col dirgli che la medicina è dolce quando invece è amara, già presente nel succitato brano dell'Epilogo magno. L'argomento in questione recita:

Praeterea saepe accidit populus esse tam imperitos, ut non nisi falsis assertionibus suaderi queant, saepeque mendacium liberavit patriam a seditione, ut Romae contigit, et medicus aegroto suadet medicinam esse dulcem, cum sit amara, et ludificando sanat potius per rhetoricam quam per medicinam, quam absque rhetorico prooemio non suasisset (ivi, 724-726; corsivo mio).

È altrettanto significativo che questo argomento, diversamente dagli altri cinque, non sia oggetto di confutazione da parte di Campanella. Al contrario, egli lo corrobora - o quantomeno sembra corroborarlo - non solo citando quelle auctoritates che ammettono la bugia a fin di bene (Platone) oppure la approvano come utile (Crisostomo) e ne accettano l'utilizzo a mo' di stratagemma (Sant'Agostino) (ivi, 728-730); ma anche puntualizzando che la menzogna, come vedremo meglio fra poco, sia il falso detto con intenzione di ingannare, non di persuadere o arrecare giovamento:

Nam, si licet occidere invasores ne nos occidant, cum moderamine inculpatae tutelae, nescio an etiam liceat mentiri magis quam sinere occidi, si quis hostis percuntetur in nocte occurrens: - Esne tu hostis, quem quaero? – dicendo: - Non sum -. Tunc enim non est vere mentiri. Mendacium enim est falsitas dicta animo fallendi, non suadendi. Falsum dixere etiam sancti viri, putantes esse verum aut animo iuvandi (ivi, 730; corsivo mio).

3. Verità, veracità morale e vericidio

La distinzione tra menzogna reale e menzogna apparente non ha quindi un fondamento ontologico, concernente l'essenza della menzogna, bensì dipende da un fattore che ne è al contempo esterno e correlato, vale a dire nel complesso di propositi e desideri (intenzione) che causa l'atto del mentire e dei relativi effetti benefici o nocivi su chi lo subisce. Del resto, l'importanza riconosciuta da Campanella a questi effetti costituisce lo sfondo su cui si staglia anche il secondo dei due summenzionati vizi, frutto di una concezione irresponsabile (e in ultima analisi irrazionale) della verità, che rivendica il dovere di dire o confessare il vero sempre e comunque, pure quando le sue conseguenze sono di nocumento a sé stessi e agli altri. Incarnato nell'Epilogo magno da colui "il quale in ogni cosa vuol dire il vero quantunque noccia" e per ciò stesso "non vertadero, ma superstizioso appare" (Campanella 1939, 555), questo vizio è oggetto di un'analisi più estesa nel decimo libro della Theologia. Qui Campanella arricchisce e articola il ragionamento svolto nello scritto del 1598 tracciando una distinzione tra la verità e la veracità morale, basata sulla convinzione circa i limiti invalicabili della conoscenza umana. L'autore muove dall'assunto che la verità di una cosa dipende dalla corrispondenza fra la sua entità e l'idea del suo fattore: "Veritas rei est entitas quatenus correspondet ideae factoris sui". Da ciò ne deriva che la verità pertiene esclusivamente a Dio, "qui veritas ipsa est mensuraque rerum", poiché l'uomo non fa le cose - "nisi quasdam et ex parte et confuse" - e dunque non conosce come sono in sé stesse (Campanella 1978, 68). Al contrario, la veracità può contraddistinguere gli esseri umani, il che si verifica quando le azioni rispettano le promesse fatte e le parole rispecchiano conoscenze e convinzioni intime:

Attamen verax homo est, afferma infatti Campanella, dicendo res prout eas novit creditque esse; faciendo ut sit quod facturum promittit et negando prout non novit, et non faciendo quod non facturum pollicetur. Potest enim et verax esse, dicendo falsum quod putabat esse verum. (ibidem; cf. Campanella 2011, 95)

Alla veracità si oppongono poi i due vizi già indicati nell'Epilogo magno, ai quali Campanella assegna ora i nomi di mendacio e vericidio – un neologismo coniato dall'autore per sottolineare come il vizio in questione uccida e tradisca una verità che dovrebbe essere utilmente occultata. A questo proposito Campanella - memore sia dei numerosi interrogatori subìti che della sua capacità di resistenza alla ferula inquisitoriale - domanda retoricamente: "Cur enim interrogatus de proprio enormi peccato a quocunque fateatur illud? Fateatur Deo et ministro Dei, sicut et quando et ubi oportet" (cf. Campanella 2011, 98). D'altra parte, continua Campanella, se così non fosse, se cioè fosse doveroso dire la verità "semper et ubique et omnino", sarebbe necessario non solo eliminare le favole, le parabole, le metafore e le facezie, ma anche considerare peccato gli stratagemmi militari ("quae in facto videntur mendacia") e la simulazione della pazzia compiuta da Davide, Solone e Bruto, oltre che dai medici quando guariscono un pazzo. "[Q]uod non admittimus", chiosa a mo' di conclusione Campanella, che, giova ripeterlo, seppe fare un buon uso della "simulata stultitia", traendone il massimo profitto possibile.[9] Date queste premesse, non stupisce che il filosofo calabrese ritenga che il vericidio sia a tutti gli effetti un peccato mortale, anche se circoscrive la validità di questa affermazione ai soli casi in cui la verità espressa "nocet nobis valde aut proximo aut Deo reverentiam exsuit" (Campanella 1978, 92-94).

Credo valga la pena soffermarsi, seppure brevemente, su questo riferimento al prossimo, che, lungi dall'essere peregrino o casuale, conferma quanto detto in precedenza circa il nesso organico tra la filosofia campanelliana e le preoccupazioni relative alla vita associata. Vale infatti per il vericidio quello che vale per la veracità: come la società civile, l'amicizia e il commercio sarebbero distrutti allorché gli uomini non si dicessero reciprocamente il vero (cf. Campanella 2011, 96), così il consorzio umano andrebbe incontro alla rovina qualora la verità fosse detta "ubilibet et cuilibet". Facendo leva su una concezione pessimistica dell'uomo, che ricorre nei suoi scritti con una certa frequenza, Campanella osserva che il vericidio, una volta consolidatosi nel costume e divenuto perciò una pratica diffusa e accettata, avrebbe come effetto quello di rivelare i "secreta reipublicae hostibus" e i "peccata hominis homini et omnibus". Il che comporterebbe un'ulteriore, ben più drammatica conseguenza, ossia l'uccisione di tutti i cittadini, poiché non c'è nessuno che non faccia mai qualcosa degno di morte o di pena ("Nemo enim est qui morte dignum quid non faciat vel poena"). Senza contare infine che i nostri peccati, avendo luogo quotidianamente, costringerebbero ipso facto la società a preoccuparsi esclusivamente della punizione delle colpe e dunque a ignorare tutti gli altri compiti, cosicché non ci sarebbe spazio alcuno per la felicità, ma soltanto afflizione e pianto. Ecco perché Campanella invita con forza ogni uomo a emendare sé stesso e a tacere i propri peccati, o meglio, a svelarli segretamente al solo sacerdote, richiamando in proposito – e in linea con gli assunti principali della sua riflessione - il modello paradigmatico offerto dalla natura. La quale vuole che le colpe degli uomini e gli atti che ne rendono manifesta la fragilità siano ammantati dal velo della segretezza: "Sic etiam [omnis homo] taceat peccata sua, et clam sacerdoti aperiat sibique medeatur: ipsa enim natura nedum culpas, sed etiam actus nostrae fragilitatis indices secretos esse vult, ut edere, cacare, coire cum muliere et mingere etc." (Campanella 1978, 68).

4. In lode di Lucio Giunio Bruto

Abbiamo appena visto che le considerazioni campanelliane sul vericidio, poste alla confluenza di ragioni filosofiche ed esperienze autobiografiche, sono radicate anche nel rifiuto di giudicare peccaminosa la "simulata stultitia" di Davide, Solone e Bruto. Questo rifiuto mi permette di fare una precisazione importante, che conferisce maggior respiro al ragionamento svolto finora, chiamando in causa un altro grande protagonista della cultura italiana rinascimentale, con cui Campanella ha interloquito e polemizzato lungo tutto l'arco della propria produzione filosofica: Machiavelli. Il filosofo calabrese non è infatti il primo a ritenere che la simulazione della pazzia, perlomeno in determinate circostanze, sia figlia legittima della prudenza; già il Segretario fiorentino si era fatto portavoce di una simile istanza, espressa nel secondo capitolo del terzo libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, il cui titolo suona "Come egli è cosa sapientissima simulare in tempo la pazzia" e che si apre con uno schietto elogio di Lucio Giunio Bruto: "Non fu alcuno mai tanto prudente, né tanto estimato savio per alcuna sua egregia operazione, quanto merita d'esser tenuto Iunio Bruto nella sua simulazione della stultizia". Un elogio del genere prelude - come ovvio, trattandosi del Segretario fiorentino – a una lettura tutta politica di tale simulazione, a partire dalla sua ragione principale, coincidente con la volontà di Bruto di "essere manco osservato ed avere più commodità di opprimere i re e di liberare la sua patria, qualunque volta gliele fosse data occasione". Coerentemente con questa affermazione, Machiavelli elegge Bruto a punto di riferimento, o meglio, a modello di azione politica per tutti coloro che, essendo "male contenti d'uno principe", desiderano sì contrastarlo ma sono privi delle forze necessarie a farlo apertamente (Machiavelli 1997, 420-421).

Muovendosi sul terreno dei rapporti di forza tra un principe e i suoi avversari, Machiavelli, in linea con il suo approccio dicotomico alle dinamiche politiche, delinea due possibili scenari diversi, ai quali devono corrispondere due differenti modalità di azione. Il primo scenario è propizio a una forma di opposizione diretta e immediata: gli avversari sono così potenti che possono "scoprirsi suoi [scil. del principe] nimici e fargli apertamente guerra". Il secondo scenario ha invece tempi più lunghi e richiede una strategia d'azione anfibia, improntata non solo al nascondimento delle reali intenzioni, ma anche al mimetismo comportamentale e alla conquista di una sempre maggiore vicinanza al detentore del potere, possibile in virtù dei legami di amicizia e familiarità. Questo scenario si impone quando gli avversari del principe, non avendo forze sufficienti "a fargli guerra aperta", devono riporre ogni sforzo nel conquistare la sua amicizia "ed a questo effetto entrare per tutte quelle vie che giudicano essere necessarie, seguendo i piàciti suoi e pigliando dilettazione di tutte quelle cose che veggono quello dilettarsi". Una volta raggiunta siffatta dimestichezza col principe, i suoi avversari vivono sicuri e al riparo da ogni pericolo, godono "la buona fortuna di quel principe insieme con esso lui" e – ciò che più conta – hanno "ogni commodità di sodisfare allo animo" loro. Insomma, ogni qual volta i rapporti di forza siano sbilanciati a favore del principe, privando dunque i suoi oppositori della possibilità di ricorrere all'azione diretta, conviene "fare il pazzo come Bruto, ed assai si fa il matto, laudando, parlando, veggendo, faccendo cose contro allo animo tuo per compiacere al principe" (ivi, 421).

Come si vede, l'elogio machiavelliano della simulazione di Bruto si inserisce nel quadro di una riflessione di ordine più generale, che abbraccia temi cari al Segretario fiorentino – in particolare il ruolo della "mala contentezza" nell'innescare le dinamiche politiche – e concerne le modalità di opposizione al potere principesco. Si tratta di una riflessione che, giova precisarlo en passant, non può certo essere definita oziosa o accademica, soprattutto se poniamo mente a due specifici (e ben noti) fatti storici: il panorama frastagliato dell'Italia del Quattrocento e del primo Cinquecento è punteggiato dalle ricorrenti congiure ordite contro i principi, che non a caso costituiscono un altro tema caro a Machiavelli;[10] quest'ultimo è un assiduo frequentatore, a partire forse dalla metà del 1516, degli Orti Oricellari, una cerchia letteraria che vede la partecipazione di non pochi giovani animati da forti sentimenti repubblicani, alcuni dei quali saranno tra i promotori della congiura antimedicea del 1522.[11] Ebbene, tenendo presente questo quadro storico-culturale e le osservazioni effettuate in Discorsi iii 2, credo sia possibile (e legittimo) giungere alla seguente conclusione: se è vero che la figura di Lucio Giunio Bruto assume un valore positivo agli occhi tanto di Machiavelli quanto di Campanella, che ne apprezzano la prudenza e si uniscono così al coro dei suoi molti ammiratori rinascimentali, propensi a vedere nel console romano il simbolo della libertà repubblicana e della lotta contro la tirannia;[12] è altrettanto vero che le ragioni che inducono Machiavelli a tessere le lodi di Bruto non collimano certo, se non in minima parte, con quelle che animano nella Theologia la posizione di Campanella sulla "simulata stultitia".

Ciò nonostante, il confronto fra le ragioni dell'uno e dell'altro, come vedremo nel paragrafo successivo, riveste un significato e un interesse particolari, vuoi perché è a suo modo esemplificativo della distanza che separa il frate calabrese dal Segretario fiorentino, fermo restando il fatto (notorio) che il primo attinge a più riprese al bagaglio di idee e precetti approntato dal secondo, tanto da spingere alcuni studiosi seicenteschi a considerarlo un seguace di Machiavelli sotto mentite spoglie; vuoi perché consente di cogliere, per contrasto, le specificità della posizione di Campanella, che, a differenza di quella machiavelliana, è giustificata da preoccupazioni di ordine non solo politico, legate come visto alla condanna del vericidio, ma anche filosofico ed etico. Il che è del resto conforme all'impianto sostanzialmente unitario e sistematico del pensiero campanelliano, nel quale la politica è solo un tassello, quantunque importante, di un più vasto mosaico concettuale, di una concezione del mondo che rifiuta ogni frattura tra le diverse branche del sapere umano. È Campanella stesso a rendere chiaro questo rifiuto, sia quando nell'Esposizione al sonetto Al Telesio cosentino si definisce un "filosofo de' princìpi e fini delle cose", che "rinnovò la filosofia, ed aggiunse la metafisica e politica ecc., e la accoppiò con la teologia" (Campanella 1977, 236); sia quando denuncia la parzialità e la conseguente infondatezza della Weltanschauung machiavelliana, che a suo dire è un conglomerato di nozioni soltanto storiche e politiche.

5. Forme e limiti della simulazione

Se così stanno le cose, non sorprende che il giudizio di Campanella sulla simulazione della pazzia possa essere compreso appieno solo se letto alla luce di altre considerazioni, riguardanti innanzitutto la simulazione tout court. Consegnate al decimo libro della Theologia, queste considerazioni prendono le mosse dalla definizione del mendacio come quel vizio che si oppone direttamente alla veracità e si contraddistingue per il proposito di significare il falso allo scopo di ingannare dicendo appunto il falso: "Mendacium mox opponitur veracitati […]. Est autem mendacium propositum significandi falsum causa fallendi hoc dicendo falsum". Campanella è chiaro al riguardo: colui che significa il falso pensando che sia il vero "non est mendax, sed falsus, idest non verus, non autem non verax", mentre colui che dice il vero credendo che sia il falso e col proposito di dire il falso "mendax est, non autem falsus, quia it contra mentem, idest contra id, quod mente credit verum". Definito in questi termini il mendacio, il filosofo calabrese passa a descriverne le diverse tipologie, che rispondono a tre differenti angoli di visuale: considerato "ex sui ratione", esso si divide in iattanza e ironia, "illa plus dicit quam est in rei veritate, ista minus"; valutato "ex effectu", si configura come giocoso, officioso e pernicioso, nel senso che l'uomo mendace vuole "aut delectare aut benefacere aut malefacere illi cui mentitur"; esaminato infine "ex subiecto", si divide ulteriormente in mentale, vocale e reale (Campanella 1978, 70-72). Ed è proprio in merito a quest'ultima tipologia che Campanella fa menzione del simulatore, identificandolo con l'ipocrita e quindi attribuendogli come caratteristica precipua la discrepanza tra azioni e convinzioni, tra res e mens:

Qui enim statuit in animo suo mentiri, mendax est mentalis; qui autem voce manifestat id quod contrariatur menti et conscientiae, est mendax vocalis, ut Petrus dicens: non novi hominem. Qui autem re manifestat, quod menti non est, utitur re non secus ac voce pro signo contrario menti, et is dicitur hypocrita seu simulator. (ivi, 72)

Chi leggesse questo brano e ignorasse il resto dell'argomentazione campanelliana potrebbe credere, in modo apparentemente legittimo, che la simulazione sia per il filosofo una forma specifica di mendacio, la variante particolare di un vizio che, in quanto tale, merita di essere condannata e contrastata. Questo ipotetico lettore potrebbe inoltre giungere alla conclusione che Campanella, nel momento in cui si schiera a favore della "simulata stultitia", cada in contraddizione con sé stesso o assuma una posizione estemporanea, priva di legami con il corpo robusto della sua filosofia. In realtà, basta procedere un poco oltre nella lettura per comprendere che questa conclusione, qualora fosse raggiunta, sarebbe errata e fuorviante. L'autore sviluppa il proprio ragionamento individuando tre forme di simulazione, delle quali solo la terza appartiene al vizio del mendacio, mentre le prime due rientrano nell'ambito dell'imitazione e della rappresentazione. Muovendo dalla tesi che "[s]imulatio autem est aliquid simile re vel verbo tanquam re facere alicui enti reali vel mentali", Campanella parla di simulazione imitativa, alla quale ricorrono tutti gli artefici, che "faciunt res similes ideis a rebus sumptis", e soprattutto Dio, l'artefice primo che "res omnes creat faciens suae ideae similes"; comparativa, che è impiegata da coloro "qui significant rem aliquam per aliam rem similem, ut poeta, dum metaphoras facit"; ingannevole, nella quale interviene il mendacio e che si verifica quando simuliamo qualche cosa "ut ostendamus simulacrum esse rem veram, vel facimus significare quod non est". Dovuta insomma alla confusione volontaria tra simulacro e verità o alla discrepanza (altrettanto volontaria) tra significato e realtà, la simulazione ingannevole raggiunge per Campanella il proprio climax negativo nell'ipocrisia, in cui egli vede notoriamente una delle tre radici di "tutti i mali del mondo" (le altre due essendo la tirannide e i sofismi) (Campanella 1977, 113) e che ben si attaglia a colui il quale "habitu, opere et voce sanctitatem se habere fingit, quam non habet" (Campanella 1978, 76-78).

Ora, quest'ultima frase mi permette di fare una seconda precisazione e affrontare il problema della "simulata stultitia" da una prospettiva più pertinente, riprendendo e articolando meglio il discorso circa la distanza che esiste al riguardo tra Campanella e Machiavelli. Tale affermazione, che può essere facilmente letta come una stoccata polemica all'indirizzo di alcuni confratelli e correligionari, è infatti la spia di una differenza irriducibile tra i due, tale perciò da fare ulteriore chiarezza sui tratti distintivi della postura campanelliana. In precedenza, ho richiamato l'attenzione sulla cornice tutta politica in cui si inseriscono le parole del Segretario fiorentino su Bruto, nonché il suo invito a seguirne l'esempio. Ciò è dovuto al fatto che Discorsi iii 2 riflette una profonda convinzione machiavelliana, ossia l'idea che la politica sia per così dire un gioco (spesso pericoloso) di apparenze, una danza (a tratti macabra) di ombre e immagini, proiettate all'esterno al fine di realizzare quei due obiettivi che, mutatis mutandis, accendono da sempre la lotta politica: la conquista del potere e la sua conservazione. Bruto fu in grado di conseguire il suo scopo, l'uccisione di Tarquinio il Superbo, proprio perché seppe muoversi con grande abilità e ferrea determinazione sul terreno delle sembianze, sfruttandolo al massimo e a proprio vantaggio. Ed è per questo che Machiavelli lo considera un esempio insuperato di prudenza – parola chiave del vocabolario politico rinascimentale; quella stessa prudenza che non può non contraddistinguere il principe, al quale Machiavelli, nel famoso (e famigerato) capitolo xviii del Principe, impartisce infatti un insegnamento relativo alla necessità delle apparenze e alla loro utilità politica. Richiamandosi a quanto detto nel capitolo xv (cf. Machiavelli 1997, 159-160), il Segretario fiorentino offre ai lettori un brano celebre, fra i più noti e discussi in sede interpretativa, che tanta parte ha avuto nella storia della sua plurisecolare (e postuma) sfortuna:

A uno principe adunque non è necessario avere in fatto le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle; anzi ardirò di dire questo: che, avendole e osservandole sempre, sono dannose, e, parendo di averle, sono utili; come parere piatoso, fedele, umano, intero, religioso, ed essere: ma stare in modo edificato con lo animo che, bisognando non essere, tu possa e sappia diventare il contrario. (Ivi, 166)

E subito dopo ribadisce:

Debbe adunque uno principe avere gran cura che non gli esca mai di bocca cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità; e paia, a udirlo e vederlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione: e non è cosa più necessaria a parere di avere, che questa ultima qualità. (Ibid.)

Come si vede, il campo della simulazione è per Machiavelli ben più ampio di quello coperto dalla pazzia; esso è in effetti tanto vasto da comprendere le buone qualità che il principe - secondo una lunga tradizione di pensiero, ampiamente influente nella prima età moderna - deve possedere o sforzarsi di possedere realmente. Sotto questo profilo, la "simulata stultitia" di Bruto è commendevole nella misura in cui conferma la validità di una regola generale, che sembra ignorare eccezioni di sorta e si applica anche alla sfera delle virtù, sottratte perciò da Machiavelli alla dimensione normativa del dover essere e consegnate a quella, dinamica e cangiante, dell'apparire. In modo ben diverso si pone il problema per Campanella. Rispetto al Segretario fiorentino, il frate calabrese restringe la sfera d'influenza della pratica simulatoria e del ricorso alla finzione, che devono arrestarsi sulla soglia della religione e della virtù. Questo restringimento emerge con chiarezza nel succitato passo della Theologia, in cui Campanella stigmatizza l'atteggiamento ipocrita di colui che, tanto con le parole e le azioni quanto con l'abito, finge di avere una santità che non ha. Una conclusione simile è raggiunta anche nell'Ethica, dove tuttavia il filosofo amplia il raggio della propria argomentazione includendovi il riferimento alla virtù. Egli precisa infatti che l'uomo, quando nasconde i propri vizi, non può spacciarsi (a fatti o a parole) per santo e virtuoso; tra le parti in cui si divide la veracità vi è la "[s]implicitas in ostensionibus", alla quale si oppone l'ipocrisia, che è descritta per mezzo del seguente precetto: "qualis enim est homo, debet se ostendere; aut si tegit propria vitia, non debet se venditare pro sancto et virtuoso, verbis vel factis" (Campanella 2011, 96, corsivo mio). La dissimulazione dei vizi deve per Campanella essere tenuta distinta e separata dalla simulazione della santità e delle virtù, nel senso che l'esercizio della prima non giustifica o legittima quello della seconda, che, oltre a essere censurabile sul piano morale, si rivela pericoloso sotto il profilo ontologico e politico-sociale, conducendo sia a quell'autoannichilimento di cui ho fatto menzione nel secondo paragrafo (cf. supra, 2s., nota 4), sia all'uccisione degli uomini buoni e virtuosi. Emblematici al riguardo sono i primi otto versi del sonetto Parallelo del proprio e comune amore, che recitano: "Questo amor singolar fa l'uomo inerte, / ma a forza, s'e' vuol vivere, si finge / saggio, buon, valoroso: talché in sfinge / se stesso annicchilando alfin converte / (pene di onor, di voci e d'òr coverte!). / Poi gelosia nell'altrui virtù pinge / i proprii biasmi, e lo sferza e lo spinge / ad ingiurie e rovine e pene aperte" (Campanella 1977, 116). Il percorso che conduce dalla finzione delle virtù alla distruzione di sé e degli altri, descritto da Campanella nell'Esposizione, ha origine dall'eccesso di amor proprio, reo di spingere gli esseri umani (consci del fatto che "le virtù […] conservan l'uomo") a fingersi "almeno virtuosi"; e "questo fingersi quel che non siamo", conclude il filosofo agitando un tema ricorrente nella letteratura della dis/simulazione (Fintoni 1996, 186), "è un annichilamento di quel che siamo, assai penoso". La sofferenza derivante dall'annientamento ontologico arreca sì benefici materiali, essendo "coverta d'onori falsi, d'adulazione e da ricchezze di fortuna, ne' prìncipi più che in altri", ma prelude in realtà alla rovina individuale e collettiva, frutto amaro della gelosia scaturita dal confronto fra i "proprii biasmi" e le "altrui virtù". Coloro che simulano di essere virtuosi, dopo essersi accorti che i "veri virtuosi son come testimoni della falsa virtù loro, entrano in gelosia di Stato, e vengono ad uccider e ingiuriar le genti buone, e insidiarle, e rovinare quelle e sé e la repubblica" (Campanella 1977, 116).

6. Mendacio officioso e "simulata stultitia"

Alla luce di quanto detto nel paragrafo precedente, la differenza fra la posizione machiavelliana e quella campanelliana sul problema della simulazione è alquanto chiara: il Segretario fiorentino sottolinea con forza la necessità politica della simulazione delle (buone) qualità e i suoi effetti benefici ai fini del mantenimento del potere, in conformità all'idea che tra essere, dover essere e apparire non possa e non debba esserci sempre una piena corrispondenza; il frate calabrese rimarca con pari forza che la simulazione della virtù da parte dei principi apre una prospettiva catastrofica, per usare una espressione gramsciana,[13] poiché risulta rovinosa tanto per i singoli simulatori quanto per il corpo politico nel suo insieme, in coerenza con la tesi che la dimensione dell'apparire debba sempre essere un riflesso fedele, una ostensione di quella dell'essere. Da ciò ne consegue che la "simulata stultitia" di Bruto rappresenta per Machiavelli, come detto, la conferma particolare di una regola generale, mentre sembra costituire in Campanella l'eccezione a una regola diversa ma altrettanto generale. Come spiegare allora questa eccezionalità? Si tratta di una proiezione sul piano teorico di una esperienza autobiografica, se non addirittura del tentativo di giustificare in sede filosofica una decisione personale, maturata in un frangente drammatico e decisivo? Oppure trova la propria ragion d'essere nello spazio più ampio della riflessione campanelliana? Credo che una risposta plausibile non possa non tenere in considerazione i due corni della questione: se da un lato Campanella difende la scelta di Davide, Solone e Bruto al fine di rivendicare la legittimità della propria scelta (cf. Fintoni 1998, 301s.), come suggerito dall'Esposizione al sonetto Di se stesso, quando, ecc.; dall'altro lato, tale difesa non va disgiunta, anzi è sorretta da serie ragioni teoriche, iscrivendosi nell'alveo delle considerazioni sul mendacio, in particolare su quello che Campanella definisce "mendacium officiosum". Già sappiamo che per l'autore il mendacio, se considerato nel suo effetto, si divide in pernicioso, giocoso e appunto officioso. Resta ora da vedere in che cosa consistano queste tre tipologie, prendendo in esame, ancora una volta, quanto detto dall'autore nel decimo libro della Theologia.

Il mendacio pernicioso presuppone la violazione delle promesse compiute e può essere proferito contro Dio o il prossimo. Il primo caso si verifica per Campanella quando qualcuno viola le promesse fatte a Dio, comportandosi alla stessa maniera di Lutero e Giuliano l'Apostata, che ripudiarono la fede professata. Il secondo caso ha invece luogo quando qualcuno, negando o comunque non mantenendo le promesse fatte, arreca danno al prossimo "in vita aut fama aut pecunia". E in merito a ciò Campanella compie un'affermazione tanto icastica da risultare lapidaria - "Absque enim fide respublica statim corruit" -, che possiede un certo sapore antimachiavelliano[14] e d'altronde è ampiamente condivisa e ripetuta da molti pensatori cinque-seicenteschi (non da ultimo Giordano Bruno nello Spaccio de la bestia trionfante).[15] Al contrario di quello pernicioso, il mendacio scherzoso mira a procurare piacere pronunciando falsità innocue, come se un analfabeta dicesse per gioco di essere un grande astrologo e un uomo faceto si spacciasse ironicamente per un bambino o per un monaco. Ben più complesso e delicato è il caso del mendacio officioso, che si ha quando qualcuno mente in vista del proprio o altrui beneficio. Consapevole di muoversi su un terreno teorico sdrucciolevole, concernente l'ammissibilità o meno di una forma specifica di menzogna, Campanella cerca di mettersi in sicurezza compiendo due operazioni: in primo luogo, si ripara dietro la trincea dei riferimenti biblici, precisando che la Sacra Scrittura non considera mai colpa questo tipo di mendacio e ricordando, fra le altre vicende veterotestamentarie, quella di Giuditta, lodata "quod mentita est Holoferni pro salute popoli" (Campanella 1978, 82-85); in secondo luogo, inquadra il problema della colpevolezza del mendacio officioso in quello più generale della peccaminosità di ogni mendacio, offrendo una chiave di lettura ispirata a prudenza e cautela, anche se riecheggia in sostanza quanto asserito prima nell'Epilogo magno e poi nella Rhetorica e nell'Ethica - dove si legge che "alii concedunt" un mendacio del genere nella misura in cui è volto non a trarre in inganno, bensì a giovare oppure a ingannare colui che merita di essere ingannato ("quoniam non fit animo fallendi, sed iuvandi; immo etiam si fallendi eum qui meretur falli") (Campanella 2011, 99; cf. supra). Ingaggiando un corpo a corpo con la tesi agostiniana che il mendacio è "peccatum vel mortale, cum contra Deum aut proximum fit, vel veniale, ut iocose aut officiose profertur", alla quale oppone la testimonianza di altri Padri della Chiesa, l'autore osserva infatti che coloro i quali mentono officiosamente intendono significare il falso non di per sé, ma in vista di un altro fine (quale ad esempio la conservazione della vita e la salvezza della patria). Ed è in questo contesto teorico che Campanella associa implicitamente il mendacio officioso alla simulazione di Davide, Solone e Bruto, scegliendo di ricorrere all'uso dell'avverbio "officiose" per qualificarla: "Item David […] coram Achis rege Getheo officiose simulat insaniam, ut mortem effugeret, sicut et Solon in senatu atheniensi et Brutus Romae pro libertate" (Campanella 1978, 87-88, 92).

Penso non sia azzardato concludere, sulla scorta di questo brano, che la posizione campanelliana sulla "simulata stultitia" del console romano - e degli altri due personaggi storici - si presenta sotto luci diverse a seconda della prospettiva adottata: se giudicata in base alla norma etica che prescrive la "[s]implicitas in ostensionibus" e dunque la simmetria tra essere e apparire, assume i caratteri dell'eccezionalità; se valutata invece attraverso il filtro delle osservazioni sul mendacio officioso, perde questi caratteri e si afferma come conseguenza logica e coerente delle stesse. D'altronde, non va dimenticato un particolare importante, al quale ho già fatto accenno e voglio dedicare le battute finali del saggio: tali osservazioni appartengono al nucleo di idee che, elaborato negli scritti giovanili, finirà per accompagnare l'intera parabola speculativa di Campanella, contribuendo sia a modellare il suo rapporto con le auctoritates classiche e patristiche, sia a precisare meglio alcuni aspetti della sua riflessione, compresa la tesi circa la perniciosità della simulazione delle virtù. Esemplare in proposito è la Quaestio secunda contra politicam Aristotelis, dove l'autore applica all'ambito della politica la massima espressa dal verso "Bello è il mentir, se a far gran bene si truova" (Campanella 1977, 169). Egli esamina infatti i due modi di conservazione della tirannide descritti da Aristotele nel quinto libro della Politica, vale a dire le arti tiranniche e la "simulationem regii status", la quale prevede appunto che il tiranno finga, fra le altre cose, di essere alieno dalla crudeltà, degno di venerazione "per virtutes veras, vel simulatas", sobrio, animato da forte zelo religioso, etc. Il giudizio su queste finzioni dipende per Campanella dagli obiettivi perseguiti: se finalizzate a ingannare il popolo "in aliis negotiis ad sui utilitatem", in maniera tale che l'inganno nuoccia agli ingannati, sono dei mali e pertengono all'ipocrisia, "qua nihil magis damnat Dominus Iesus Christus in principibus et Phariseis"; tuttavia, se nascono da un inganno officioso, volto a far sì che il popolo riverisca il principe e ami il suo governo, non disdegni l'obbedienza e non si scandalizzi, "non sunt malae hypocriticae", perché l'ipocrita è colui che "simulat, ut possit impune malefacere, non qui tegit vitia, ne alii scandalizentur" (Campanella 2013, 682s., 689). Insomma, Campanella sembra suggerire che la simulazione delle virtù regali è moralmente e politicamente ammissibile quando nega sé stessa risolvendosi nella dissimulazione dei vizi tirannici, che scandalizzano il popolo e minano alle fondamenta il dovere di obbedienza dei sudditi nei confronti del principe. Anche in questo caso, l'articolarsi della riflessione campanelliana dipende dal punto di vista scelto: ex parte principis, la pratica dis/simulatoria, se adottata officiosamente, può fungere da dispositivo teso alla conservazione della struttura verticale e gerarchica del potere, andando ad alimentare quei sentimenti di riverenza e amore che sono la migliore garanzia del patto di obbedienza; ex parte populi, la veracità morale e il rifiuto del vericidio assicurano l'esistenza del corpo sociale, tutelandolo dai rischi connessi alla mancanza e all'eccesso di trasparenza tra i suoi membri.

 

How to cite | Come citare: Panichi, Alessio (2019), "'Bello è il mentir, se a far gran bene si truova'. Verità, menzogna e simulazione negli scritti di Tommaso Campanella." In lettere aperte vol. 6, 9-23. [permalink: https://www.lettereaperte.net/artikel/numero-62019/428]

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