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Resistenza come evento. Antropologia e verità della testimonianza in A. Zanzotto

 

Muovendo da un'analisi della Resistenza in termini evenemenziali – che mette quindi in evidenza, seguendo il pensiero di Alain Badiou, la modificazione ontologica introdotta dall'evento "Resistenza" – il presente contributo, sulla scorta della riflessione formulata da Jean Starobinski nel 1943, propone un'indagine dell'impatto che la lotta partigiana ha avuto sia nella produzione del soggetto resistente, ovvero sulla sua antropologia, sia sulla sua capacità poetica e testimoniale. La poesia di Zanzotto diviene il luogo in cui si manifesta il venire alla presenza del partigiano e si formalizza uno stile in grado di testimoniare la ferita e la verità prodotta da un tale processo antropologico.   Analyzing the Resistance as an event – thus highlighting, following the thought of Alain Badiou, the ontological modification introduced by the event "Resistance" – the essay, on the basis of the reflection formulated by Jean Starobinski in 1943, proposes an investigation on the impact that the partisan struggle has had both in the production of the resistant subject, i.e. on its anthropology, and on its poetic and testimonial capacity. Zanzotto’s poetry becomes the place where the process through which the partisan comes to the presence is manifested and where a style capable of testifying to the wound and the truth produced by such an anthropological process is formalized.
     

1. Evento e ferita

 Vittorio Sereni, negli ultimi versi di Nel sonno – poesia frutto di una lunga gestazione, composta tra il 1948 e il 1953, apparsa la prima volta sulle pagine dei "Quaderni piacentini"[1], successivamente nel volume Cinque poeti e sei scrittori[2] e, infine, come componimento d'apertura della sezione Il centro abitato della raccolta Gli strumenti umani (Einaudi, 1965) –, istituisce, in modo icastico, quella che potremmo definire una topica di eccezionale valore epistemico nella delineazione dell'essenza del gesto testimoniale resistenziale. Delimitandone lo spazio d'enunciazione, i soggetti coinvolti e la loro progressione antropologica:

                                                      Geme

da loro in noi nascosta una ferita

e le dà voce il vento dalla pianura,

l'impietra nelle lapidi. (Sereni 2006, 158)

La chiusa di Sereni imbastisce una relazione simbolica tra i partigiani, "loro", e "noi", a partire dal potere rappresentativo dell'immagine della ferita. Ferita che è, in primis, la rappresentazione di un luogo, l'allestimento della topica di un incontro e di una relazione meta-storica, prima ancora che l'elezione di un soggetto e di un oggetto della testimonianza. E, come si cercherà di dimostrare, non è un caso che si voglia rintracciare la peculiarità della testimonianza della Resistenza in un autore che, per sua stessa ammissione, ne è stato, dalla storia, forzatamente escluso. Assumendo la distinzione heideggeriana tra cominciamento [Beginn] e inizio o origine [Anfang o Ursprung], la testimonianza, infatti, trova il proprio cominciamento nell'indisponibilità di un soggetto in grado di testimoniare – ovvero, l'individuo, il qualcuno che compie un'esperienza, non è in sé né un soggetto né un testimone – la cui origine consiste invece nel confermarsi, nel venire alla presenza, come testimonianza effettiva in una relazione – il testimone diviene soggetto di testimonianza in un rapporto loro-noi in forza, si vedrà, di un evento:

Beginn ist jenes, womit etwas anhebt, Anfang das, woraus etwas entspringt. [...] Der Beginn wird alsbald zurückgelassen, er verschwindet im Fortgang des Geschehens. Der Anfang, der Ursprung, kommt dagegen im Geschehen allererst zum Vorschein und ist voll da erst an seinem Ende. Wer vieles beginnt, kommt oft nie zum Anfang. Nun können wir Menschen freilich nie mit dem Anfang anfangen – das kann nur ein Gott –, sondern müssen beginnen, d.h. mit etwas anheben, das erst in den Ursprung führt oder ihn anzeigt.[3] (Heidegger 1980, 3s.)

Emerge qui la contraddizione temporale che sembra custodire l'origine del gesto di resistere e, quindi, di testimoniare: solo da un cominciare incarnato nella storia, incastonato nelle sue leve, nei suoi oggetti necessitanti, può celarsi l'inizio, ovvero la messa in discussione, se non la rottura, dell'ordine storico. L'origine verrà alla luce solo nell'attuazione di una processualità, quindi caratterizzata da una tensione meta-storica, che viene però inaugurata solo da un cominciamento pienamente storicizzato e che cela, e allo stesso tempo custodisce, l'Anfang e l'Ursprung: "certo il cominciamento è l'involucro che nasconde l'inizio, e in questo senso è addirittura indispensabile" (Heidegger 1978/79 vol. II, 37).

La dinamica cominciamento-origine è ciò che Sereni individua nell'immagine della ferita. La testimonianza è tale se e solo se si istituisce sui bordi di una ferita. Lungo i quali – da loro in noi – si situano i soggetti di una relazione che è meta-storica: in quanto geme da un tempo – il loro – ad un altro – il nostro.

Italo Calvino, nella Prefazione del 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno, fornisce una considerazione puntuale della natura mnestica di questa ferita:

La memoria – o meglio l'esperienza, che è la memoria più la ferita che ti ha lasciato, più il cambiamento che ha portato in te e che ti ha fatto diverso –, l'esperienza primo nutrimento anche dell'opera letteraria (ma non solo di quella), ricchezza vera dello scrittore (ma non solo di lui), ecco che appena ha dato forma a un'opera letteraria insecchisce, si distrugge. Lo scrittore si ritrova ad essere il più povero degli uomini (Calvino 1947, 23).

L'esperienza si apre in un campo in tensione tra due polarità: da un lato la memoria, dall'altro la ferita che questa ha prodotto nel soggetto che ha patito l'esperienza in questione. L'esperienza – che Calvino intende nei termini della benjaminiana Erfahrung, ovvero di esperienza vera, accumulata, e non vissuta ed intellettualmente sistematizzata [Erlebnis][4] – sembra destinata ad ingaggiare con il soggetto un rapporto agonale, una lotta impari dalla quale l'autore è destinato ad uscirne con una povertà riconfermata: la ferita è sintomo di cambiamento, ma allo stesso tempo è ammonimento di un'assenza a venire, di una povertà futura: quella dello scrittore l'indomani del suo primo scritto.

Quale cambiamento geme nella ferita? Quello che l'evento Resistenza ha introdotto nella situazione storica e che ha indotto la nascita del soggetto resistente. Utilizzando l'ontologia evenemenziale proposta da Alain Badiou e l'antropologia ad esso connessa[5], si può leggere la Resistenza come l'avvento di un "in più" ontologico che ha divelto lo scorrere della situazione data. L'8 settembre 1943, infatti, si presenta come l'irruzione di un evento che disarticola completamente sia la logica della guerra sia la vita stessa di milioni di cittadini. Carlo Dionisotti, in un editoriale apparso nell'autunno del 1945 su "Giustizia e libertà", ricordando l'armistizio di due anni prima, definisce la data come un punto di abissale riferimento nella storia d'Italia, un giorno rispetto al quale c'è un prima e un dopo: "un nodo che non si sfila. Ed è acquisita come forse nessun'altra in passato, perché dentro e al di là di un evento comune, milioni di italiani hanno, in proprio, [legato, ndr] a quel giorno una pausa e una svolta nella loro singola vita" (Dionisotti 2008, 155). Ma a cosa ci si lega l'8 settembre? Cosa si sceglie? Il momento storico non convoca ad una scelta per "un modo qualsiasi di esistere", ma chiede di scegliere o meno per l'esistenza stessa, chiede di ristabilire le condizioni di possibilità perché l'esistenza stessa dell'uomo possa essere effettiva, "l'esistenza insomma dell'uomo nell'esercizio libero del suo pensiero e del suo lavoro" (ivi, 86s.), scrive sempre Dionisotti in un frammento del 1944. E individua nella lotta resistenziale una tensione incoativa, una pratica ri-generativa dell'umano messa in atto dall'accadere stesso della storia:

Questa, se mai altra, è la guerra onde può attendersi l'uomo, secondo l'antico detto, fabbro della sua fortuna, l'individuo esperto di tanto male e ansioso finalmente del bene, l'individuo sì, che, superstite dell'eccidio, solo con la sua libera vita, fatta giustizia del nemico, riconosce intorno a sé negli altri superstiti i compagni e con quelli imprende la via: questa, se mai altra, la guerra onde può attendersi non una, ma la rivoluzione dell'antica Europa (ivi, 89).

Cosa significa che l'uomo, in questa guerra, "può attendersi"? Quale dinamica ontologica è sottesa da questa attesa? Sembra infatti sussistere, accanto ed intrecciata ad uno sforzo soggettivo e alla nominazione di una individualità agente una processualità storico-oggettiva. Occorre, in altri termini, che sia successo qualcosa di supplementare rispetto alla situazione presente perché la singolarità dell'individuo vada a comporre un nuovo soggetto. La sensibilità estetica di Jean Starobinski – in Introduction à la poésie de l'événement, un saggio del 1943 (Starobinski 1943, 40-42) – coglie questo "qualcosa in più" – questo qualcosa che accade contraddicendo le regole dello stato di cose presente, direbbe Alain Badiou – come una distorsione delle dinamiche oggettive e autolegittimantesi caratteristiche del tempo ordinario e, parimenti a Dionisotti, istituisce una relazione necessitante tra la realizzazione effettuale dell'esistenza soggettiva e la peculiarità della circostanza storica: "il tempo è fuori dai cardini, bisogna raggiungere l'esistenza" (ivi, 42). Anche Starobinski nomina questa circostanza come un evento, come un qualcosa che non c'era e che, nel momento in cui avviene, comporta una concatenazione di mutamenti. La situazione presente si apre al possibile e al nuovo, seppur nella drammaticità, e, conseguentemente, l'individuo è chiamato proprio da tale supplementarietà a decidersi per una nuova e impensata modalità d'essere. L'8 settembre è quindi la porta d'accesso nella situazione storica per quell'evento che possiamo chiamare Resistenza. Alain Badiou definisce l'evento come un cominciamento radicale, come la genesi di una procedura di verità che nasce, grazie alla rottura di una situazione per mezzo di un trans-essere, all'interno di una modificazione puntuale di una molteplicità data. Tale modificazione è mossa dall'introduzione di "una nominazione singolare, l'entrata in gioco di un significante in più. E sono gli effetti nella situazione di questa entrata in gioco di un "nome in più" che instaurano una procedura generica e determinano l'evenienza di una verità della situazione" (Badiou 2008, 37). Con l'8 settembre, quindi, si introduce nella situazione risultante dalla caduta del fascismo un significante sovra-numerario, un nome in più: quello della scelta. È la possibilità di scegliere, intesa primariamente nella sua piega meta-riflessiva come scegliere di voler scegliere, che introduce l'elemento supplementare, l'innominabile all'interno del paradigma fascista. La scelta per la Resistenza si configura quindi come una fedeltà all'evento Resistenza, come un continuo riabitare quella possibilità di scelta originaria. Come un trovare forme nuove, pensieri e azioni, per mezzo delle quali rapportarsi alla situazione storica sempre dalla prospettiva aperta dalla verità dell'evento. Le tracce di una tale fedeltà costituiscono la procedura di verità esplosa in Italia nel settembre 1943. Sono gesti che nella lacerante immanenza della determinatezza storica producono rotture e ne reinventano ogni volta la sostanza: sono la scelta per la montagna, la clandestinità, la lotta armata, i sabotaggi, il gappismo, le attività di disarmo, le staffette, gli atti terroristici, l'appoggio ai partigiani… Sino alla decisione di rivivere questa scelta tramite la sua trasfigurazione poetico-narrativa. Come coglie puntualmente Gabriele Pedullà (2005, XXII), tutte queste scelte sono mosse dalla medesima pulsione di verità.

Se l'evento Resistenza inaugura, tramite il nome in più della scelta, la procedura di verità nella situazione storica, qual è il ruolo del soggetto e, soprattutto, chi è il soggetto? Badiou risponderebbe: "si chiama "soggetto" il supporto di una fedeltà, cioè il supporto di un processo di verità. Quindi, il soggetto non pre-esiste affatto al processo. Esso è assolutamente inesistente nella situazione "prima" dell'evento. Si dirà che il processo di verità induce un soggetto" (Badiou 1994, 41). L'essere partigiano non preesiste quindi all'esperienza della scelta introdotta dall'evento, alla sua possibilità. La presenza di numerosi antifascisti in fase pre-resistenziale fu fondamentale (e che aderirono all'antifascismo per svariati motivi: politici, etici, religiosi, civili…), ma l'8 settembre accadde qualcosa che impose una sfasatura nelle loro biografie e nella loro stessa tessitura antropologica. Qualcosa che li ha rotti e colti in qualcosa d'altro (ivi, 45).

2. L'antropologia della testimonianza: spazialità e temporalità del canto

Grazie a questo necessario détour, siamo giunti alla fonte della ferita individuata da Sereni e confermata anche da Calvino alla base dell'atto della scrittura. Una ferita che ricorda la rottura e la ricomposizione in altro dell'individuo – ovvero nel soggetto resistente – suscitata dall'evento e confermata nella fedeltà alla scelta di scegliere di scegliere. Ferita alla quale segue una consustanziale perversione della linearità temporale, quella in forza del quale la medesima ferita geme in noi e in loro.

Jean Starobinski, nel già citato Introduction à la poésie de l'événement, mette infatti in luce come il rapporto tra evento, testimonianza e produzione poetica sia da inscrivere costitutivamente entro un orizzonte di tempo divelto, di eternità, a prescindere dal perdurare della scrittura stessa e al di là della sua frequenza nella produzione artistica di un autore. Se il prorompere (cf. Starobinski 1943, 40) nel canto del testimone sembra infatti nascere all'insegna della necessità, come una "parola che dice il terrore e la pietà dinanzi alla colpa, che denuncia l'accecamento passionale, parola che risarcisce la sventura nella luce gloriosa che niente può macchiare" (ibid.), è l'intonazione all'eternità la sua cifra caratterizzante. Il modello, prosegue Starobinski, è quello del coro nella tragedia antica, dell'irrompere del lirismo nel momento stesso in cui la violenza estrema calca la scena. In quel momento "il canto – fosse pure interrogativo ed esitante – costituisce allora l'ammirevole intermediario attraverso cui la circostanza raggiunge l'eternità" (ibid.). È il coro l'intermediario tra il tempo storico dell'azione e l'intemporalità di una ricerca di senso sul mistero del vivere e del morire. Il loro unico possibile punto d'incontro è nell'intorno dei corpi travolti dalla violenza. "Connesso all'eterno", annota Starobinski, "il coro è capace di profezia" (ibid.). Profezia che viene qui presentata nella sua originaria accezione di immanenza: il coro è allo stesso tempo connesso con il mondo degli accidenti, con l'angoscia del presente. In una partecipazione dolorosa, empatica, alla situazione reale è custodita la vocazione più intima del coro e, fedelmente all'analogia suggerita dall'autore, anche del testimone. In modo estremamente icastico, con inflessioni plastiche quasi teatrali, Starobinski traccia la figura del testimone come colui che tenendo "gli occhi bene aperti dinnanzi all'evento" si "appoggia" all'eterno e da quella posizione, in stallo tra una dimensione solipsistica ed una situazione condivisa, innalza "un canto che esprime la sofferenza e che dà forma a una speranza in cui tutti potranno riconoscersi" (ibid.). È quindi forse l'"insieme" la figura antropologica del testimone, più che l'io, il noi o il loro: la ricerca di frammenti di senso disciolti nella realtà è sempre un percorso che tende alla condivisione di una relazione: anche quando la scaturigine della parola è murata nella solitudine dell'esperienza artistica[6], il suo canto si inscrive nell'orizzonte del coro. Un coro la cui tessitura relazionale è dettata da un gemere comune.

Là dove il tempo storico e il tempo interiore si incontrano inizia il compito del testimone di escogitare una strategia stilistica in grado di assurgere ad una dimen­sione sovraindividuale.

Nella riflessione di Starobinski, la testimonianza, espressa in particolar modo dal registro poetico, si situa in un complesso gioco a tre termini:

l'io del poeta, l'evento presente e un terzo termine, trascendente, in funzione del quale ogni grande poesia acquisisce la sua intensità. Si misuri la complessità di questo rapporto: se il poeta è il testimone della storia davanti all'eternità, per altri versi esso è il testimone dell'eternità di fronte al mondo in cui vive, e come tale il ruolo di testimone può prendere il senso sacro di martire. (Starobinski 1943, 40)

È nella dimensione di trascendenza evocata dalla prosa di Starobinski che si può rintracciare quell'apertura alla rottura innestata dal processo di verità concettualizzato da Badiou. E la correlata ferita. È nel nodo tra una dimensione umana totalmente invischiata nel dramma della situazione reale e l'anelito ad una realtà altra che va letta la produzione letteraria che nasce dalla Resistenza. Il testimone del secondo conflitto mondiale, prosegue Starobinski, è ben differente dall'immagine del poeta vate incarnata da Hugo. Se questi, in una posizione di attento e acuto spettatore della scena che gli offriva la strada parigina, si attribuiva il mandato di innalzare "gli eventi politici alla dignità di eventi storici" (ivi, 41), il poeta gettato sul palcoscenico della Seconda Guerra Mondiale non può permettersi di stare fuori dal gioco delle forze che si affrontano. "Lo sconvolgimento, per la sua violenza e la sua universalità, obbliga chiunque eserciti la parola, ne sia cosciente o meno, a prendere parte" (ivi, 42). È la poesia stessa ad essere attraversata dall'evento, sono le sue strutture estetiche immanenti a venirne pervertite. Il testimone è chiamato a ribaltare il mandato del poeta vate, deve interiorizzare la storia, assumere su di sé il passaggio dell'evento; la sua opera deve "vedere la storia nell'uomo piuttosto che l'uomo nella storia" (ibid.), chiosa Starobinski attraverso le parole di Pierre Emmanuel. Affermare che il canto sia inciso nella necessità significa quindi sostenere che le formule consuete dell'espressione artistica non siano in grado di reggere il peso della nuova rappresentazione: il testimone deve "trovare in se stesso una parola nascente, al limite dell'indicibile" (ibid.). La nuova poetica deve trovare gli spazi stilistici all'interno dei quali si possa stabilire un rapporto tra l'anima e la parola, perché "il desiderio, l'amore, il dolore illimitati trovino una forma" (ibid.).

Il compito, conclude Starobinski, è difficile e, scrivendo nel pieno del conflitto, le sue parole sono il sintomo di un combattimento sul campo estenuante. Ancora una volta il piano estetico si intreccia con quello politico. La medesima pulsione di verità che muove sia alla lotta sia allo scrivere si presenta nella sua ruvidezza, rende manifesta l'inadeguatezza che colpisce tanto il combattente quanto lo scrittore. Inadeguatezza magistralmente espressa, ancora una volta, da Calvino:

Certo è questa immaturità che io associo ora all'indeterminatezza dei lineamenti, perché la persona che nei miei ricordi è sempre presente e sempre invisibile, cioè io, io che sono privo di immagine (non per niente vivo da mesi in un mondo senza specchi, posso dire che ho dimenticato chi sono; e come gli altri non ho, o non dovrei avere, neanche un nome) esisto soprattutto come coscienza della mia immaturità rispetto alle prove che affronto.[7]

Sta forse qui il motore del paradosso che innerva l'opera di un poeta come Andrea Zanzotto, tutta tesa a cercare un rapporto, attraverso la parola, con i compagni morti: se, come ricordato da Beppe Fenoglio, l'essere partigiani è un compito assoluto, proprio come quello di poeta, aperto all'eterno come ogni evento, non sarà proprio solo la morte a rilasciar l'attestato di aver posseduto una dimensione antropologica in grado di reggerlo? Non sarà che quelli che hanno dato prova di possedere le qualità etiche per non tradire la fedeltà all'evento Resistenza e per poterlo quindi trasfigurare in poesia sono coloro che non possono più farlo? Giorgio Caproni, in Celebrazione, sembra condividere il dubbio: "I morti per la libertà. / Chi l'avrebbe mai detto. / I morti. / Per la libertà. / Sono tutti sepolti" (Caproni 1982, 128). Forse solo loro "sanno", e solo loro "sanno come trovare la parola" in quanto martiri, direbbe Starobinski, e il testimone è destinato a perdurare in una situazione straniante, sospeso tra la necessità del canto – "dinanzi ad alcuni eventi gravi e assoluti, il testimone, colpito nel profondo, prorompe nel canto, cioè nel grido che aspira alla purezza" (Starobinski 1943, 40) – e il desiderio di un pudico silenzio.

Il rischio di chiedere ai morti la legittimazione per l'opera dei vivi è ben presente nella letteratura resistenziale e produce anticorpi stilistici, così come quello di incappare in un più o meno volontario autonominarsi a portavoce della loro memoria. Una diffusa sensibilità nei confronti del benjaminiano monito alla redenzione dei morti spinge i testimoni che decidono di prendere parola a trovare le forme espressive in grado di scardinare le pretese di una politica memorialistica reificata o ridotta a didascalia: un tale errore significherebbe ipostatizzare la memoria dei propri morti, ucciderli una seconda volta. Pedullà nota come nella maggioranza dei casi gli scrittori – poeti o narratori che siano (quando questa demarcazione è possibile) stabiliscano tra la comunità dei vivi e quella dei morti un rapporto di diaconia:

non è ai morti che verrà chiesto cioè di fare qualcosa per i vivi (legittimarli), ma saranno questi ultimi ad accollarsi la responsabilità di preservare con il proprio racconto il senso di quel sacrificio, proponendosi come mediatori tra coloro che non ci sono più e coloro che non c'erano ancora. Naturalmente i due pubblici non contano allo stesso modo per tutti gli scrittori. A volte si ha l'impressione che i "compagni corsi avanti"[8] costituiscano il supremo tribunale al quale il reduce deve sottoporre la propria opera (è il caso di autori "tanatofili" come Fenoglio e Zanzotto); per altri invece ciò che conta è soprattutto la possibilità di trasmettere il proprio messaggio e il senso della propria scelta ai nuovi venuti. (Pedullà 2005, XXs.)

In entrambi gli schieramenti rimane comunque fondamentale il riferimento, nei primi esplicito, nei secondi implicito, alla dimensione della morte, alla necessaria comunanza simbolica con l'orizzonte dei defunti. Simpatia, quest'ultima, che non si ribalta mai nell'ideologia della bella morte di marca fascista o in una vitalistica accezione della morte in battaglia: "a differenza dei vivi, ai caduti in battaglia non piace sentirsi raccontare quanto è nobile immolarsi per un ideale o quanto sono dolci i canti che i poeti intessono per gli eroi caduti nel fiore della giovinezza" (ibid., XXI). Nelle loro opere i testimoni sembrano infatti dotare i compagni scomparsi di atteggiamenti achillei, mettendo in evidenza come la ricerca e il lustro per la gloria terrena siano prerogative esclusive dei vivi e non dei morti, preferendo quest'ultimi vivere tra i mortali come umili servi piuttosto che regnare sulla "massa senza numero delle ombre" (ibid.) dell'Ade.

Zanzotto, cercando di rintracciare il senso sacrale insito nella morte dei caduti in battaglia, non può che arrestarsi innanzi al muro di autoreferenzialità che una tale ricerca disvela: "Il vostro perire – nel sacro di primavera – / mi sembrava la radice stessa di ogni sacro. / Anche se per voi, certo, non lo era" (Zanzotto 1999, 149). I morti sono "dèi per me malgrado voi stessi" (ivi, 731), il poeta conosce il rischio di idolatria al quale sono continuamente sottoposti, un'idolatria che rischia di reificarne la memoria sull'altare di una celebrazione del pro patria mori. Se l'attuale crisi dell'antifascismo e l'erosione continua di quei principi che, scaturiti dalla lotta partigiana, andarono a delineare la pensabilità stessa della mentalità costituente sono il risultato, anche, di una memoria pubblica oleografica (se non agiografica) (cf. Luzzatto 2004); se l'attuale revisionismo cerca di equiparare i partigiani e i caduti di Salò in nome proprio di un'etica e di un'estetica della bella morte, è sempre più necessario riconoscere come la migliore produzione letteraria resistenziale abbia sin da subito riconosciuto tali possibili derive ed abbia sempre giudicato con grande severità ed onestà intellettuale il "protocollo vuoto" (Pedullà 2005, XXII) delle celebrazioni ufficiali.

Per sfuggire questa deriva ossificante, può essere utile riconoscere nella matrice etica resistenziale non solo il mutamento delle coordinate temporali, ma anche di quelle spaziali. La Resistenza, la sua cifra evenemenziale, apre gli spazi residuali perché il paesaggio venga investito dallo sguardo delle vicende umane e dalla loro ritmica temporale. E la ferita di Sereni riguarda quindi l'intera realtà.

Zanzotto, nel ricordare i cinquant'anni della Resistenza, suggerisce a questo riguardo la sommatoria di un duplice espediente ottico, l'uno biologico, l'altro tecnico: Diplopie, sovrimpressioni (1945-1995) è il titolo del suo componimento:

 

I

Lanugini di luce appena bianca

dilagate in lontananza di prati,

                     Martiri, umili elementi

Fratelli sacri alle invasioni dei venti,

è il 30 aprile, questo, il vostro giorno

di anni ormai così alti e remoti

da non essere colti

dallo sforzo degli occhi

                                      semisepolti.

 

È il 30 aprile, questo il vostro giorno,

                     Martiri, mirabile

                     affanno di gioventù –

                     spari, sangue, non più,

nemmeno lapidi per voi, ma milioni

di leggerissimi globi-soffi, devozioni

                                      tra silenzio e voce

                                                                bilichi

                                      verso un'infinita foce.

 

II

Sempre un po' storto e stonato

In ritardo entro le vostre azioni,

Martiri, ovunque vi leggo nel tremolio

dei globi di pappi perennemente intenti

a scomparire nascere ridire

                                      ridire di prato in prato

                                      a raso dell'oblio.

Finalmente a ciò ch'è soltanto respiro

di minime, sorde, divine ostinazioni

vi assimilate per sempre, redimete

dal più, dal peggio di ogni dubbio –

che pur del tutto non risolto, in ceneri

qua e là s'intigna e striscia. Ma poi

nel pluvïoso lacrimio

s'affiancano pur quelle a pappi e acheni

e con essi cibo profondo

d'erbe e terra si fanno per noi. (Zanzotto 2001, 37s.)

La strategia qui suggerita dall'autore – in cui si somma un procedimento foto-cine-televisivo come la sovrimpressione, ovvero "il "marchio" o "tatuaggio" chimicamente o elettronicamente apposto sull'immagine" (Cortellessa 2006, 201)[9], ad un difetto visivo come la diplopia, ovvero la "tendenza a sdoppiare l'oggetto della percezione in due o più immagini tra loro minimamente sfalsate" (ibid.) – risponde ad un duplice compito. Da un lato permette al poeta di cantare i compagni morti e di recuperarne il "giorno" in quegli anni che non sono più "colti / dallo sforzo degli occhi / semisepolti"; dall'altro concede al partigiano di interpellare lo spazio nel quale si muove, di donargli senso, cogliendolo nel sangue e nelle lacrime che "cibo profondo / d'erbe e terra si fanno per noi". Azione politica, gesto di resistere e produzione estetica si intrecciano e rimandano l'un l'altro, in quanto scaturiti da un'unica vocazione. Il duplice risultato è reso possibile dalla capacità di uno sguardo siffatto di proiettare sugli oggetti dell'esperienza una intenzionalità polisemica, di riattivare nel soggetto resistente il leopardiano "uomo sensibile e immaginoso" agli occhi del quale:

il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà con gli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d'una campana; e nel tempo stesso coll'immaginazione vedrà un'altra torre, un'altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che gli oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione. (Leopardi 1991 vol. II, 2052)

La Resistenza permette proprio ciò che la vita non consente nella sua quotidianità: anche quando il partigiano non cambia paesaggio, anche quando lotta nel territorio dove è nato, egli vi investe, sospinto dalla processualità etica evenemenziale, una potenzialità ottica eccedente. L'ambiente in cui il resistente si muove subisce una continua sovrimpressione, una polisemia immaginifica si apre nelle pieghe del territorio, frutto di un impercettibile strabismo. Tutto acquista senso, tutto si può rappresentare, ricorda Calvino, ora che le ville sono diventate prigioni: qui dimora l'accezione autentica del legame tra il partigiano e la terra, anche quando si ipostatizza nella pervasività del fango fenogliano. Nessun provincialismo, nessuna genesi tellurica, ma la capacità di trovare in ogni oggetto empirico una dimensione di senso, di spillarne eticità.

Ogni luogo, inteso come manufatto, inteso come impasto di vettori materiali e simbolici, di frammenti temporali e mnestici, è agli occhi del resistente ciò che Benjamin definisce un'"immagine dialettica":

Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l'ora in una costellazione. In altre parole: immagine è la dialettica nell'immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l'ora è dialettica: non è un decorso ma un'immagine discontinua, a salti. Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio. (Benjamin 2000, 516)

Connettendo la riflessione benjaminiana alla poesia di Zanzotto, risulta evidente come lo spazio d'azione del partigiano, il Veneto, assuma agli occhi del poeta la pregnanza del luogo: ovvero quella di una "sede fisica e geografica e, insieme, sua trasfigurazione linguistica" (Cortellessa 2006, 202). La Resistenza, quindi, non solo assume la sua trasfigurazione nella poesia, ma imprime già una valenza letteraria, intesa come apertura di senso, come occasione meta-riflessiva, alla quotidianità del partigiano. I luoghi, gli spazi di incontro delle immagini dialettiche, sono le increspature all'interno delle quali poter esperire tale piega riflessiva; in discontinua, balenante e vertiginosa connessione con "ciò che è stato" e con chi l'ha vissuto. L'esperienza della lotta partigiana e della guerra diviene quindi il termine ad quem calibrare la propria esperienza esistenziale, nella sua totalità: è esame di coscienza dirimente, è mutazione della percezione del tempo, è scelta lacerante e, ora, anche diplopia, mutazione prospettico percettiva, del proprio paesaggio:

Sono nato a Pieve di Solìgo, tra il Piave e Vittorio Veneto, ho trentadue anni e insegno italiano e latino al liceo classico di questa città. Credo di aver cominciato a scribacchiare quelli che a me parevano versi fin dai sette od otto anni. Prima dei quindici avevo già "mangiato" Pascoli e D'Annunzio, poi, fino ai venti, non vidi che i Francesi, Campana, Ungaretti e Montale. Ebbi la laurea in lettere a Padova dove fui scolaro di Valeri che mi incoraggiò e mi aiutò. Dopo ci fu la guerra e la resistenza. Patii il destino che fu di tutti, ma non potei capire nessun'altra ragione fuori dall'"esile mito" (per usare un'espressione di Sereni) circoscritto in una mia Arcadia (nella ingens silva del Montello, sulle rive del fiume di Gasparina e della Nassilide, prima del Piave e del Montello della Grande Guerra), il mito di alcune lucenti evidenze di paesi e di sentimenti antichissimi e ossessivi, di alcune entità mentali e sensibili a un tempo, al di là delle quali io non riuscirò mai a vedere nulla.[10]

In questa autopresentazione del 1954, Zanzotto delinea così l'impatto provocato dalla Resistenza sulla sua vita e sulle sue capacità ottiche: sono "le entità mentali e sensibili a un tempo" lo spettro visivo al quale si è affinato, nell'esperienza bellica, il suo strabismo.

L'allenamento dell'occhio permette al partigiano non solo di individuare delle tracce significanti nel proprio ambiente, ma anche di piegarlo al proprio volere, di farlo servire al proprio progetto. In quanto soggetto politico, il resistente ingaggia quindi un corpo a corpo sia con la storia, o meglio con il tempo della storia, sia con la geografia che lo ospita. Il luogo può infatti rivelarsi, a chi lo sa ben scrutare, utero materno, ma anche abisso senza scampo:

Deflagrava il 10 agosto 1944. Su quei campi, su alcuni letti di cinquantino troppo basso e piccolo in quel periodo per proteggere dalla vista dei tedeschi, su alcuni letti di cinquantino segnato dalla nera, Gino era caduto. […] Gino aveva scelto la strada sbagliata per ripararsi; su quel cinquantino i tedeschi lo avevano visto mentre correva per raggiungere il granoturco vero e buono e altissimo poco più in giù, ed egli era subito crollato sotto i proiettili. […] Io no, io avevo trovato subito, sopra la Cal Santa, la giungla del granoturco, insieme con alcuni ragazzi; […] la Cal Santa ci aveva protetti, le grandi foglie taglienti che amo da sempre mi avevano tolto alla mira diretta della morte e fatto un grembo in cui la fortuna sinistra era stata paralizzata. (Zanzotto 1999, 1044s.)

Da questo accenno autobiografico zanzottiano emerge un'ambivalenza di sguardo che è anche ambivalenza etica: il paesaggio può trasudare la propria valenza ontologica, assiologica ed estetica – il granoturco è infatti "vero e buono e altissimo" – come può manifestare il proprio scadimento, la corruzione, lo scialo ontologico al quale l'hanno ridotto il ventennio e la guerra. In questo caso il paesaggio non protegge ma espone miseramente allo sguardo del tedesco; ribalta, o conferma ma mutata di segno, la topica arendtiana che rintraccia nell'essere manifesto l'essenza della politicità. In una vera e propria battaglia di significanti ottici, Zanzotto sembra suggerire che occorra recuperare proprio la pienezza assiologica dell'apparire arendtiano, la sua germinalità politica; bisogna tendere alla sovraesposizione, dileguare la corruzione del paesaggio operata dal fascismo con una sovraesistenza:

 

No, non-certo, sovraesistenze –

Sopravvivenze, sovraesporre –

e la linea spezzata che in ogni suo punto

si spetra si squieta si svia. (Zanzotto 1999, 399)

La poesia pare legare in un'immagine dialettica i concetti di sopravvivenza e di sovraesposizione, ma, avverte Cortellessa, "la paronomasia dissimula sotto una falsa analogia quella che è, invece, una segreta dicotomia" (Cortellessa 2006, 210). La sovraesposizione consiste infatti nell'effetto fotografico ottenuto riservando ad una "lastra o a una pellicola un tempo di posa superiore a quello necessario" (Zanzotto 1999, 456). Il registro epifanico al quale è chiamato il partigiano si situa ad un livello "superiore" rispetto a quello dell'azione della vita qualunque. Non si tratta di un livello antropologico superiore, i partigiani non sono oltre-uomini, e non sono nemmeno tutti "grandi" uomini. Come ricorda Camillo De Piaz, tra di loro vi erano anche dei poco di buono che la congiuntura resistenziale rendeva capaci di grandi gesta. È il contesto resistenziale, il suo impasto di frammenti etici e politici, che permette al soggetto resistente di (e allo stesso tempo lo obbliga a) presentarsi su di un piano epifanico superiore; di dimorare sempre al limite di se stesso, di perseverare nel processo di rottura che lo ha colto e trasformato. Non di confermare lo stato di assoggettamento presente, di "ribadirsi la catena" (Calvino 2002, 147), ma di aprirlo verso il futuro, di compiere quindi azioni grandi, di assumerne il copione e di rappresentarlo sulla scena. Il ruolo del partigiano consiste qui nel vestire il suo manto di assolutezza: se assunto, se accettato, se scelto, non ammette sfumature, gradienti o compromissioni: "perché partigiano, come poeta, è parola assoluta, rigettante ogni gradualità" (Fenoglio 2001, 447).

L'assolutezza della parola rimanda, oltre che ad un registro etico, anche ad un orizzonte giuridico. Si tratta di un oltre non oppositivo, ma connettivo: sfera giuridica e dimensione etica sono infatti frammenti di specchi posti l'uno di fronte all'altro. Il partigiano vi si frappone. È un fuorilegge, un bandito direbbe Pietro Chiodi, che, per disobbedienza, si auto-situa fuori dall'orizzonte giuridico vigente. Giudicandolo immorale, lotta per rifondarne uno nuovo. Ma nel lasso di tempo, nell'epochè, nella pausa che ritma il suo venire alla presenza, il partigiano vive l'assolutezza della sua situazione, il suo essere slegato, sciolto, da qualsiasi dimensione giuridica. È una situazione etica caratterizzata da assoluta responsabilità personale:[11] non ci sono appigli, non sussiste più un terzo oggettivo rispetto al quale calibrare la propria responsabilità, sul quale proiettare l'anonimato della propria scelta. Il partigiano, nell'atto di resistere, inaugura la possibilità, l'essere pensabile ed il campo di esistenza di un nuovo ordine giuridico. Ma la sua azione, nel tempo stesso del suo farsi, ne rimane comunque sguarnita. Ogni sua scelta si specchia nel solo frammento dell'etica in quanto ha, temporaneamente, infranto quello giuridico.

Il soggetto resistente vive sì una doppia fedeltà, al sé e alla regola, ma in totale incertezza: il suo agire infatti, da un lato, non può affidarsi ad una regola in quanto la sta producendo e formalizzando, e, dall'altro, appercepisce la propria identità morale come una dimensione in divenire, come il frutto di una ricerca. Ogni scelta non può che tendere al giusto lacerandosi nel dramma del giudizio in situazione, nel "tragico dell'azione" (Ricœur 2005, 36). È in questa mordace assenza di sicurezza il luogo in cui si concreta l'assolutezza della parola partigiano, della sua sovraesistenza.

Quanto questa sovraesistenza sia poi antinomica rispetto al sopravvivere, risulta evidente dalla spropositata difficoltà di reggere un peso etico-morale come quello affidato al soggetto resistente dall'assolutezza della sua parola e della sua azione. Ritorna qui il tema della massima fedeltà alla propria responsabilità come prerogativa esclusiva dei compagni morti. Se partigiano è compito assoluto, quindi eterno, è destinato ad essere onorato completamente solo dalla e nella morte.

La topica verticale della poetica zanzottiana rappresenta così l'ossimorica relazione tra la sovraesistenza, necessario supporto all'assolutezza del compito, e la sopravvivenza:

 

Nel tempo quando avevo i sentimenti,

                     da cui nessuna forza poteva ripararmi

                     nessun noa né tabù

 

il 25 aprile andando per i cippi

dei caduti, come per le stazioni di un calvario,

sopraffatto tremavo, e poi dalla piccola compagnia mi defilavo]

                     come in una profonda definitiva pioggia.

Il vostro perire – nel sacro della primavera –

mi sembrava la radice sacra di ogni sacro.

Anche se eravate scomparsi una sera

presi da batticuore, ormai rimossi da impatti col vivente]

proprio per l'essere stati fino-al-picco-del-vivere.

Io no. Scrivevo in quegli anni entro gli annali della mia morte,]

deliravo sul verde delle piante, sulla beltà,

senza perdonarmi ignoravo, quasi, ogni assenza

                     e svanimento con me, nella mia omertà. […]

Ora, compagni, amici, né-amici, né-compagni –

dèi per me malgrado voi stessi –

avvicinandomi per cumulo di età

                     e per corrosione a quel punto

in cui voi foste allora –

mi riconduco, osando muto, ad allora, per voi;

e sono partecipe, finalmente, delle azioni

da cui mi distoglieva il deliquio amoroso e pauroso

anche se in esse ero travolto.                      Mi pare. (Zanzotto 1999, 730-733)

I compagni che hanno assunto il livello del sovraesistere, che si sono sciolti, nell'assolutezza del gesto, "dagli impatti col vivente", sono quelli morti; morti proprio perché non hanno scelto la condizione dell'omertà ma sono "stati-fino-al-picco-del-vivere". Sono quelli che hanno scelto il "cinquantino" basso a differenza di chi ha trovato nel folto della vegetazione il pertugio alla sopravvivenza. Non solo quindi per errore di percezione, ma per consapevolezza dell'apicalità del compito, per volontà di esporsi al "Rischio dell'Aperto" (Cortellessa 2006, 216).

D'altro canto la tempestiva scelta di optare per il granoturco "vero e buono e altissimo" non rimanda esclusivamente alla capacità di leggere il territorio con occhio strategico, ma rinvia alla consapevolezza, da parte del partigiano, della propria (consustanziale) inadeguatezza alla situazione e, quindi, alla consequenziale, larvata, rinuncia. Così Zanzotto chiude la poesia dedicata ai Compagni corsi avanti:

 

Fieni in faville sui cammini e, vive

ancora, d'altri dì memori luci.

Ah compagno, ma a quali spente rive

la disillusa vita riconduci?

 

Dove sei se Diana già trasuda

Gemmante tra i notturni rami e invade

delle ore il giro diafano e denuda

terrori ebbri di foglie e di rugiade?

 

Oh stringiti alla terra, a terra premi

tu la tua fantasia. Strugge la mite

notte Hitler, di fosforo, e congiunta

 

in alito di belva sugli estremi

muschi dardeggia Diana le impietrite

verità della mia mente defunta. (Zanzotto 1999, 149)

L'invocazione di stringersi a terra, di mimare un'inversione nella topica verticalista zanzottiana, rimanda allo straniamento che la violenza, qui davvero espressionistica, della guerra getta sull'esistenza stessa del soggetto resistente. Il costo è troppo alto, il pericolo parimenti, ma sono simmetrici all'anelito di una fuga dalla situazione di minorità, dall'assoggettamento alla passione (lo struggimento) distruttrice hitleriana. Il richiamo al volo liberatore della fantasia, dell'invenzione di un possibile, si scontra e si lega con "il senso di colpa, o di impotenza del soggetto, per essersi lasciato pietrificare dalla nevrosi, e per la conseguente perdita di contatto […] con i compagni partigiani morti" (Dal Bianco 1999, 1444).

Anche qui uno strabismo percettivo, una diplopia; due realtà dai contorni sfumati che si accostano tramite un minimale sfasamento: come ingaggiare la necessità, specie se declinata lungo i dubbi dell'interiorità soggettiva? Eliminarla con un puro gesto di fantasia, trascenderla sulla spinta di una sovrumana ipertrofia di spirito, alla peggio fuggirla nell'accidia, o attraversarla, stringervisi contro, ingaggiarla con intelligenza e piegarla nella propria libertà? È lo stesso Zanzotto, con prosa piana e tesa, a dipanare la questione:

E col tornare della notte, il vago perdurare delle voci, a lunghi intervalli, quasi messaggi da un aldilà, riaccende nella mia mente il ricordo di certi miei compagni […]. Ora soltanto, cadute le invidie e i risentimenti […] mi accorgo della possibile storia delle loro azioni. Meriti e colpe di ciascuno: o meglio virtù che io mi ostinavo a condannare come vizi, perché mi pareva che con la loro esclusiva presenza in quelle anime le chiudessero ad ogni altra prospettiva, le umiliassero fino a ridurle manifestazioni non di una totale umanità, ma di un solo e perciò meschino aspetto di questa. […] ero convinto che in essi generosità ed eroismo fossero soltanto frutto della potente semplicità della loro potenza spirituale […]. Ma ora comprendo il probabile errore di quelle mie valutazioni. Anche essi avevano sentito il morso delle istanze più contrastanti, ma avevano cercato di conservare vivi intorno ad un centro unico i loro spiriti minacciati, erano passati oltre le forze paralizzanti della loro minuziosa intelligenza: eppure agendo non avevano mai fatto a meno di essa, né mai sacrificato a immondi fanatismi la ricchezza delle loro vicende interiori. […] Quanto era apparso di essi non era che il rovescio, la loro vita era stata anche per loro stessi l'ignoto, l'opposto, ciò che si riconosce con sorpresa di momento in momento; ma appunto per averla così accettata essi avevano accondisceso a qualche cosa che andava oltre l'umano, avevano chiamato in causa ciò che avrebbe avuto principio, con loro, anche se prima non fosse esistito. (Zanzotto 1999, 1011s.)

Il soggetto resistente, come ben sottolinea il poeta, non assurge ad un livello di sovraesistenza a partire da un'aprioristica nobiltà di spirito, ma "l'uomo avviene e viene" (Zanzotto 1999, 305), si concreta, approda a e proviene da, viene alla presenza nell'intreccio di vettori temporali e spaziali. Il suo vedersi è frutto di una continua adesione incerta. Ma adesione comunque è. Con lui perviene a origine "il principio resistenza". Mentre "siamo tutti tra i minori / come l'erba è minore, come la rugiada" il partigiano salta "oltre la strada e l'affossamento / oltre il vallo ed il fumo", "ma" (ibid.) è veduto.

In questo "ma", in questa sospensione, si colloca l'intima essenza dell'epifania partigiana: l'uomo, nella ruvidità dello scenario resistenziale, appare, è riconosciuto, riconosce la propria identità morale e quella dei compagni, assurge ad una dimensione politica. Tutto ciò sussiste però nella possibilità che la visione da parte del nemico si trasformi nella sua soppressione e nel suggello eterno, nel senso di oltre il tempo della necessità, del valore testimoniale del suo gesto:

i compagni avanti sono quelli che hanno esposto se stessi per un tempo "superiore a quello necessario". […] Corsi avanti, e dunque moralmente sovraesistenti, sono gli stessi che in Diplopie, sovrimpressioni Zanzotto chiamerà infatti, con la maiuscola, Martiri[12] […]. Ma martire si sa, per l'ètimo, è il testimone. E non si può davvero dire che con la sua grande poesia Zanzotto non abbia testimoniato l'esempio memorabile che una volta per tutti offrirono, i suoi compagni, a lui e a noi tutti. (Cortellessa 2006, 220s.)

Una testimonianza, quella di Zanzotto, che ha saputo raccogliere il gemito della ferita e la responsabilità che questo comporta. La ferita geme da loro, i compagni morti, in noi in quanto la stessa parola dei morti, pur nella sua sovraesistenza, non è esaustiva e irrelata, ma necessita della relazione al nostro dire ed esige una formalizzazione stilistica:

suggerendoci quelle parole, i morti della Resistenza non ci legano a sé se non staccandoci da sé, per dirci: quello che dovete ascoltare attraverso il colloquio con noi, non siamo ultimamente noi; la nostra voce non è che un aiuto a percepire la Voce che sempre nuova parla nell'intimo di ciascuno di voi. L'insegnamento dei morti che non ingannano ha questa umiltà. (Caracciolo 1993, 220)

Formalizzazione stilistica che trova nella poesia di Zanzotto la cifra stessa della rappresentazione, ovvero – e si pensi, ad esempio, ai giochi ottici sopra analizzati – la mediatezza. In forza della quale la rappresentazione consiste nella presentazione presentata – questo il senso ultimo e principale della re-praesentatio – di un senso che non si dà né immediatamente né nella sua totalità. Il potere rappresentativo dei versi zanzottiani sta quindi nella loro sospensione, nella quale non si offre un pieno di senso, ma un'apertura ove la parola testimoniale si fa parola nostra.

 

How to cite | Come citare: Cavalleri, Matteo (2019), "Resistenza come evento. Antropologia e verità della testimonianza in A. Zanzotto." In lettere aperte vol. 6, 87-102. [permalink: https://www.lettereaperte.net/artikel/numero-62019/433]

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