Libertà di Verga ovvero come il testo rovescia l'ideologia dell'autore

Il lettore ‘gettato’ dentro alla rivolta e costretto a prendere partito

Che il racconto ci interroghi, ci chiami in causa e quasi ci sfidi in quanto lettori idealmente progrediti che sono costretti a confrontarsi con una realtà periferica e arretrata, a me non pare solo una suggestione. Parto infatti da una constatazione: chi legge si sente letteralmente e quasi fisicamente coinvolto dall’azione violenta e collettiva fin dalla primissime parole. Non ha scelta: deve partecipare. A partire appunto da quello straordinario incipit in medias res che non dà conto del ‘prima’, non dà conto del contesto, delle cause, della preparazione della rivolta. Ciò naturalmente accentua l’impressione di qualcosa di spontaneo e irresistibile, una sorta di fenomeno naturale. Anche questa è una mistificazione, se vogliamo, visto che invece ci fu chi quella rivolta la ispirò, organizzò e guidò. Ma è una ellissi voluta che appunto non ci permette di prendere nessuna distanza rispetto ai fatti, che ce li sbatte davanti. E che anzi sbatte noi dentro quei fatti. Ci troviamo nel centro della tempesta, ne siamo parte, senza avere tempo e modo di rifletterci sopra:

La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla chinava il capo alle schiopettate, perché non aveva armi da rispondere. Prima c'era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. – Viva la libertà! – E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulla gradinata, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. – I campieri dopo! – I campieri dopo! – Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata – e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. (ibid., 319)

Il gesto dello scrittore è violento, non solo l’azione narrata: ci afferra come lettori secondo modalità di immersione nella scena che non è anacronistico definire cinematografiche. O siamo con i rivoltosi pronti ad affrontare le pallottole a mani nude o ci identifichiamo con i signori inseguiti e destinati a essere fatti a pezzi a colpi d’ascia. Ma sarebbe meglio dire che siamo con gli uni e con gli altri, che oscilliamo tra una identificazione e l’altra. I primi hanno certamente avuto delle ragioni per ribellarsi, tanto che nemmeno le pallottole li fanno arretrare, ma sentiamo che adesso sono diventati persecutori feroci e disumani; i secondi hanno certamente avuto dei torti a opprimere e a minacciare con le armi i contadini, ma ora ci appaiono come povere vittime degne di commiserazione: “il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. – Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; – strappava il cuore! – Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani” (ibid., 320).

Non è come con il narratore manzoniano, che prendeva tutte le distanze possibili dall’irrazionalità della folla in rivolta, qui è difficile mantenere una propria neutralità di giudizio. Certo, il narratore di Verga non si schiera mai dalla parte degli insorti, però nemmeno si dissocia apertamente, è ‘qualcuno’ che sta tra la gente, che viene trascinato dalla folla, che ne conosce dall’interno i sentimenti, che li sente e rivive in sé: “Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tutti i cappelli! ˮ (ibid., 321). Per dire insomma che nella novella non esiste un punto di vista superiore o terzo rispetto alle vicende in corso. E che non è nemmeno possibile quel ribaltamento delle considerazioni avanzate dal coro popolare che un racconto come Rosso malpelo quasi imponeva al lettore. Anche solo il ritmo incalzante della scrittura induce chi legge ad un moto spontaneo di partecipazione alla rivolta, di cui sarà subito chiamato a pentirsi.

A quale lettore ideale si rivolgeva Verga

Come spiegare questa volontà di Verga di non lasciare scampo al suo lettore? Per rispondere dobbiamo provare a dire chi fosse il lettore ideale a cui Verga si rivolgeva. Ebbene, io suggerisco che, fatte tutte le debite distinzioni, assomiglia molto all’hypocrite lecteur al quale si rivolgeva provocatoriamente il Baudelaire delle Fleurs du mal: una sorta di borghese medio, molto simile ma anche diverso da chi scrive. Nella fattispecie, Verga si rivolge a qualcuno che, come lui stesso, ha voluto la ‘libertà’ del Meridione e cioè l’unificazione italiana; solo che, diversamente da quel lettore ideale, egli non si nasconde che questa unificazione sta sotto il segno di una terribile aporia. E’ per questo che lo tira dentro quel ‘torrente’: per costringerlo a confrontarsi con una realtà con cui Verga sa bene che quel lettore non vorrebbe fare i conti.

Non si tratta di suggestioni generiche. E’ come se al di là del narratore noi intendessimo la voce dell’autore rivolgersi così ai suoi lettori: voi garibaldini, voi settentrionali, voi liberali, voi borghesi alla ricerca di nuovi mercati siete venuti in Sicilia a portare la libertà, e cioè a liberare queste terre dai gioghi feudali, e perciò avete chiesto al popolo di partecipare a questa impresa; ebbene, ora abbiate l’onestà di constatare il contraccolpo inevitabile della vostra azione; constatate come il popolo ha interpretato queste vostre retoriche parole d’ordine. Non distogliete gli occhi dagli effetti imprevisti che le vostre azioni e parole hanno provocato.

Insomma, Verga mette in guardia ironicamente quei suoi ‘ipocriti’ lettori; e in fondo lo fa anche lui sotto il segno della metafora goethiana dell’apprendista stregone, la metafora che forse dice meglio di tutte le conseguenze indesiderate del progresso.[3] Proprio come quest’apprendista i liberali borghesi hanno avviato un processo che poi si potrebbe rivolgere contro di loro (contro di ‘noi’, se come destinatari empirici ci facciamo carico del ruolo di lettore ideale costruito nel racconto). E potremmo continuare ancora a parafrasare il messaggio dell’autore: voi certo intendete la parola libertà in un senso democratico-formale, come libertà di opinione, di religione, di stampa, ecc., ma il popolo siciliano necessariamente intende la libertà come qualcosa di sostanziale, come terra da prendersi subito: “– Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! –ˮ (ibid., 323). E’ evidente che quella dei contadini di Bronte è una interpretazione indebita, inaccettabile del programma risorgimentale, ma sottintende l’autore, a questo punto l’unico modo per ‘spiegare’ loro l’equivoco è la violenza delle leggi e delle armi. Ecco dunque l’ultima ironia davanti a cui lo scrittore mette il suo hypocrite lecteur: i liberatori che si trasformano in nuovi oppressori!

Cominciamo forse adesso a capire meglio come uno scrittore “monarchico e crispino” abbia prodotto un racconto che trascende e perfino contraddice quella sua ideologia. Verga non si fa illusioni sulla ‘bontà’ del popolo, ma tanto meno si fa illusioni sulla possibilità di coinvolgere i contadini meridionali nel nuovo Stato, dandogli in cambio solo promesse vuote. Meglio dunque non illudere e non illudersi, se non si vuole correre il rischio di un cambiamento che si ritorca contro le nuove élite dello Stato appena nato. L’alternativa che lo scrittore fa dunque intravedere sarebbe questa: o non si promette la libertà al popolo, o se la si concede occorre disporsi ad accettare le conseguenze di tale atto (ma questo secondo invito è naturalmente ironico e beffardo). E’ dunque a partire da presupposti ‘di destra’ che Verga ha scritto il racconto, ma come non vedere che li ha letteralmente rovesciati.

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