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Riflessioni sul concetto d'ispirazione in due saggi di Italo Svevo e Luigi Pirandello

The following contribution aims to analyze what value the concept of inspiration has, expressed directly and indirectly in two texts by Italo Svevo and Luigi Pirandello. Both essays can be considered paradigmatic texts, as well for the Italian essayistic writing as for the typical understanding of the concept of inspiration in early twentieth century.

1. Sul valore del saggio letterario nel primo Novecento

Contrariamente a quanto di solito si tende a pensare, anche nel Novecento italiano il saggio letterario rappresenta un genere di un'enorme produttività e ricchezza. La saggistica letteraria italiana trova soprattutto tra la fine dell'Ottocento e il secondo dopoguerra un posto specifico all'interno del sistema letterario, specialmente nell'ambito della critica e della prosa d'arte, che costituisce la forma tipica del saggismo[1] moderno in Italia (cf. p.es. Berardinelli 2008, Valli 2001).

Tuttavia, per la letteratura italiana è opportuno fare una distinzione tra il saggio letterario e il saggio critico sulla letteratura, trattandosi di due forme ben distinte. Il saggio letterario, in realtà, non ha nulla a che fare con la letteratura, il che significa che non deve trattare una tematica letteraria stricto sensu. Non è perimetrato da un tema ben preciso, ma caratterizzato dal fatto che può parlare di qualunque cosa, a condizione che l'espressione sia "letteraria". Il saggio letterario, in quanto tale, si colloca fra letteratura e scienza, tra poesia e filosofia, combinando il valore del contenuto referenziale con il valore estetico dell'espressione. Su questo punto vale la pena ricordare con Adorno (1958) che il saggio può essere inteso addirittura come una forma anarchica del pensiero, nella misura in cui si sottrae ad ogni dogmatismo accademico, pur producendo nuove conoscenze che spesso sono più universali di quanto possa essere il risultato di un articolo scientifico.

Poiché un'introduzione approfondita al problema del saggio letterario non può essere affrontata nel contesto del presente contributo, queste brevi righe di carattere preliminare saranno sufficienti ad esprimere la natura, per così dire, "astratta" del genere in questione.[2]

Nelle pagine che seguono verranno presentati due saggi di rilevanza per la tematica dell'attuale numero di lettere aperte da essi affrontata: uno di Italo Svevo – composto tra il 1926 e il 1928 –, l'altro di Luigi Pirandello – scritto insieme a suo figlio Stefano Landi, nel 1935. Poco noti, questi lavori introducono dei problemi teorici importanti relativamente al motivo dell'ispirazione, inteso, questo, sia sul piano argomentativo, che contenutistico.[3]

2. Ispirazione, pazienza e natura

Il testo di Svevo, che s'intitola proprio "L'ispirazione", pur essendo rimasto allo stadio di un frammento, può essere considerato come un breve saggio personale con forte accento riflessivo, che lascia intravedere le maggiori caratteristiche del saggio familiare classico (nel senso inglese di familiar essay), calcato sui modelli della tradizione francese, dunque sull'esempio di Montaigne.

Il saggio inizia con la descrizione di una scena che, per via della sua componente narrativa, potrebbe essere tratta da un romanzo o da una novella:

Il vecchio autore si stese sulla sua poltrona e per compiacere tutti gl'invitati che s'erano assiepati a lui intorno raccontò. Aveva mangiato e bevuto e, sanissimo, non era vecchio tanto da soffrirne. Continuava il suo riposo parlando e fu sincero del tutto. (Svevo 1968, 681)

Non si sa né di quale autore si parli, né a quale quadro referenziale questa piccola introduzione possa appartenere. Ad ogni modo, la tecnica della cornice narrativa in cui si svolge il ragionamento è una tecnica ben diffusa nella saggistica italiana (si pensi, ad esempio, a Giacomo Leopardi e Emilio Cecchi)[4]. Dopo questo breve paragrafo introduttivo cambia la prospettiva e la parola viene data direttamente al "vecchio autore", del quale si è fatta menzione subito prima. Inizia a questo punto uno sviluppo di tipo monologico, che finisce col rappresentare il vero e proprio "pensiero saggistico" del testo.

Subito si mostra un io pensante molto accentuato, grazie alla dislocazione a sinistra e alla struttura chiastica dell'enunciato: "Io all'ispirazione ci credo e non credo nella pazienza" (ibid.). Già in questa prima frase siamo confrontati con il "tema del testo". L'io saggistico o anche l'io pensante – ed è opportuno parlare proprio di un io pensante, visto che il termine di narrazione e quindi di io narrante non è per niente adatto a riferirsi ad una forma di scrittura riflessiva com’è quella del saggio (tanto più che, nello specifico, la cornice narrativa esclude che l’io saggistico possa essere identificato con la voce di Svevo) – si fida dell'ispirazione e vede nella pazienza un concetto che pare essere il contrario del primo. Ispirazione e pazienza si configurano quindi come due concetti opposti. Già qui si comprende che l'ispirazione deve essere intesa come un atto veloce, opposto alla lunghezza ed alla continuità. L'ispirazione è qualcosa che capita a momenti. In questo senso sembra che Svevo abbia un concetto piuttosto romantico dell'artista "geniale", ovvero dell'ispirazione come un fatto che accade indipendentemente dall'attività cosciente del soggetto.

Il concetto d'ispirazione non trova il suo opposto soltanto nella pazienza, che richiede un'attività regolare, stabile, che dura nel tempo, ma ne trova anche un altro nel concetto di natura. Così Svevo oppone esplicitamente l'ispirazione all'immagine della natura: cosa resterebbe dell’uomo, se questo venisse privato delle possibilità offerte dall’ispirazione? Nient’altro che l’indole di un animale selvatico. Il nucleo di questo breve testo è dunque costituito da una sezione fortemente metaforica:

L'ispirazione capita, crea, poi se ne va e lascia solo l'animale che essa per un istante animò pieno del ricordo e impegnato in un lavoro che oramai è lasciato solo privo dell'ispirazione ch'egli ricorda più o meno chiaramente. (ibid.)

Ma l'ispirazione è spiegata anche attraverso un'altra immagine, che crea un rapporto con la luce intermittente di un faro: "L'ispirazione è come quel faro che ad ogni tratto manda un raggio di luce. Si dimentica presto e quando si rinnova pare si sia spostato mentre è proprio immoto" (ibid.)

A questo punto voglio lasciare per un momento il saggio di Svevo e passare ad un testo di Arthur Koestler, critico e scrittore austro-ungarico, che negli anni sessanta del Novecento cercava di analizzare il processo creativo nell'arte e nel lavoro scientifico.

Nel suo libro Der göttliche Funke (tradotto in italiano con il titolo L'atto di creazione) Koestler individua il vero processo creativo del lavoro scientifico e artistico nell'uso della cosiddetta bisociazione. Il processo epistemologico non funziona attraverso causalità sistematiche, bensì attraverso associazioni che combinano concetti appartenenti a due aree indipendenti (cf. Koestler 1966, 37s.). La bisociazione intesa in questo senso, di fatto, non è altro che una semplice metafora. Tra un'ispirazione artistica e un'ispirazione scientifica che porta ad un allargamento della coscienza non c'è differenza qualitativa. Tutte e due funzionano attraverso il concetto di metafora, che Koestler illustra sulla base di varie scoperte come quella del sistema circolatorio – anche questa scoperta aveva come base una metafora (il cuore come pompa), in assenza della quale, forse, non sarebbe stata possibile (cf. Koestler 1976).

Il saggio stesso che si colloca fra arte e scienza, e quindi anche tra ispirazione artistica e ispirazione scientifica, opera attraverso queste bisociazioni basandosi sull'uso della metafora, come Svevo nel suo testo sull'ispirazione, conferendo un senso di tipo pragmatico a delle abduzioni di carattere estetico.

Ma torniamo al saggio di Svevo. Nel suo frammento l'io pensante continua con il seguente ragionamento:

Figurarsi come l'ispirazione sia breve quando ha da segnare non solo una linea, non solo una direzione ma una parte di vita, la sua imitazione e la sua simulazione. Allora credo che occorra la formica ma una formica che sa intendere il linguaggio dell'ispirazione e anche sa ricordarne e il sistema e l'importanza: una formica dal senso critico. (Svevo 1968, 681)

Al di là della struttura sintattica della citazione, è sorprendente in queste ultime righe l'uso della metafora. Come può essere intesa la metafora della formica? Se si guarda alla struttura dell'enunciato, sembra che le due frasi di cui si compone intrattengano un rapporto d’ordine causale. Si può supporre che la formica, da un lato, sia una pars pro toto del comportamento animalesco e istintivo e, dall'altro, possa essere intesa come reificazione di una forma di diligenza disumana, perché senz’anima. Il carattere della formica è, pertanto, quello di un animale diligente che con molta pazienza, ma "senza pensiero" si adatta alle ingiunzioni della collettività. Un'immagine simile viene descritta anche da Kant nella sua lezione sulla pedagogia, laddove si parla degli uomini senza ingegno:

[…] ein Mensch, der viel Gedächtnis, aber keine Beurteilungskraft hat. Ein solcher ist dann ein lebendiges Lexikon. Auch solche Lastesel des Parnasses sind nötig, die, wenn sie gleich selbst nichts Gescheites leisten können, doch Materialien herbeischleppen, damit andere etwas Gutes daraus zustande bringen können.[5] (Kant 1803, 731)

Svevo cerca di fare una sintesi di due concetti opposti. È l'io pensante che sostiene che la forma migliore sarebbe "una formica che sa intendere il linguaggio dell'ispirazione" (Svevo 1968, 681). In un tale orizzonte logico, ispirazione e pazienza non sarebbero più nemici, ma insieme costituirebbero la sintesi ricercata dall'artista.

Anche in altri luoghi della produzione dell’autore si può ipotizzare un’influenza di Esopo e di La Fontaine, come in questo caso particolare, rispetto al binomio cicala-formica. Nella fiaba di cui la cicala e la formica sono protagoniste, alla formica diligente che pensa al proprio futuro con saggia previsione si contrappone la cicala, associabile invece all'"uomo ispirato". A ben guardare, anche nella fiaba la formica, alla fine, è presentata come un soggetto capace di intendere il linguaggio dell'ispirazione: garantisce la sopravvivenza della cicala, a condizione che questa prosegua il suo "mestiere artistico" (La Fontaine 1678, 4s.)

In un certo senso, la formica creata dall'io pensante concilia il concetto dell'ispirazione artistica con quello della persistenza insipida, trasformandosi in tal modo in una sorta di desiderio utopico dell'autore.

Oltre alla densa struttura metaforica del testo, l'originalità del frammento si delinea in modo particolare nei passi in cui ci si serve degli exempla, ossia di piccole digressioni storiche, attuali o di carattere privato. Dopo l’equivalenza tra concetti esoterici ed ispirazione, Svevo inserisce così la descrizione di una spedizione al polo Nord:

E mi fa ridere quando parlano di telepatie e di spiritismi. Non si tratta d'altro che d'ispirazione. Già è evidente che un'ispirazione sorprende il passato e il presente e prevede l'avvenire. Che cosa è una buona idea davanti alla quale l'umanità lenta e assorta nelle cose che vede e tocca apre tanto di bocca? È tutto. Il passato, il presente e l'avvenire. Quando io mi misi a piangere sentendo che Byrd e Amundsen arrivavano a estendere al Nord la signoria dell'uomo era un'ispirazione.[6] Vedevo uccisi un maggior numero di orsi, di foche e di balene, le bestie più amabili perché grosse e inermi. Una vera ispirazione da profeta. Solo un poco facile perché conoscevo la sorte degli elefanti all'Equatore. (Svevo 1968, 681)

La visione patetica associata all'evento della spedizione quale atto profetico viene immediatamente svalutata da un'altra immagine, quella legata alla sorte degli elefanti – secondo un movimento tipico del pensiero saggistico. Anche qui abbiamo nuovamente un intreccio tra il concetto dell'ispirazione e quello della natura. Il modo in cui Svevo parla degli animali stupisce un po’, ma è perfettamente conforme a quanto espresso negli altri saggi e frammenti sul darwinismo, una nozione da cui l’autore, com'è noto, trae molta ispirazione, senza semplicemente riprenderne le idee in modo acritico. Il fatto che nella descrizione della spedizione al polo Nord l'autore veda "uccisi un maggior numero di orsi, di foche e di balene, le bestie più amabili perché grosse e inermi" fa pensare soprattutto alla teoria sveviana del mammut, in cui l’autore sviluppa l'idea ironica secondo la quale "la signoria dell'uomo sulla natura" sarebbe indissociabile dalla storia di animali grossi come il mammut, perché l’ombra di questi ultimi avrebbe conferito agli uomini la sicurezza necessaria per potersi sviluppare tranquillamente. In fondo, il fatto che in questo saggio sull'ispirazione gli animali grossi vengano uccisi suggerisce l'idea di un superamento finale della storia umana, in un’ottica quasi psicanalitica – tant’è che in queste pagine la teoria del complesso edipico sembra voler essere reinterpretata in chiave evoluzionistica (cf. Minghelli 2002, 15).

3. Ispirazione e noia

Un’idea d'ispirazione in apparenza radicalmente opposta a quella tematizzata nel frammento sveviano traspare da un saggio letterario che Pirandello ha scritto insieme a suo figlio Stefano Landi qualche anno dopo "L'ispirazione".

 

fig. 1: Pirandello con i figli, sulla terrazza di Fausto, nel 1931 (a sinistra: Stefano), (c) public domain. source: wikimedia commons

 

Il saggio "Stefano o della bontà", inizialmente pubblicato nella rivista L'illustrazione Italiana del 18 luglio 1935, comincia riportando in maniera indiretta il ragionamento del figlio maggiore di Pirandello:

Il maggiore dei miei figli, Stefano, suol dire che la migliore condizione di spirito per un artista, la più proficua per il suo lavoro, è la noia: "dalla quale vaporano idee e fantasmi"; e, fedele alla sua massima, fa di tutto per condurre una vita monotona. S'apparta, è lieto di rinunziare a ogni distrazione. (Pirandello 1935, 1504)

La concezione dello spirito artistico di Stefano all'inizio può sembrare profondamente distante rispetto a quella che ha cercato di teorizzare Svevo. In effetti, per Stefano l'ispirazione non proviene da un atto spontaneo di creatività, ma proprio dal suo contrario, da una paziente attesa. L'io pensante di Luigi inizialmente dà anche ragione a suo figlio: "Io non me lo posi mai per principio; ma, se penso alla mia vita fino ai cinquant'anni, vissuta tutta fra le quattro pareti del mio scrittoio, regolata e metodica, posso consentire con lui" (ibid.).

Ma l'io saggistico esplicita che ormai la sua idea sull'ispirazione è cambiata: "Se non che, in questi ultimi tempi da che mi sono messo a girare il mondo, ho visto che, anche senza noia, si può ben produrre lo stesso" (ibid.). Non senza invidia Stefano rimprovera a suo padre il fatto che per lui la noia non è più necessaria come motore d'ispirazione:

Non hai più bisogno di solitudine, di lontananza materiale fra te e gli altri, né d'un largo di tempo vuoto, per predisporti l'animo ad ascoltar la voce segreta delle tue creature: ti basta un momento di sosta fra una faccenda e l'altra, fra un incontro e l'altro, per riprendere intero il tuo spirito e metterlo all'istante in istato di grazia (ibid.)

Il cambiamento nel modo di concepire l’ispirazione artistica diventa quindi una questione di generazioni. L'ispirazione smette di essere un fatto casuale che non può essere influenzato dal soggetto stesso, e sembra che diventi un metodo, una sorta di prassi ripetibile in funzione delle esigenze dell'autore.

Un simile discorso era stato fatto anche da Nietzsche che, nella sua interpretazione antimetafisica, ha concepito l'ispirazione artistica non come evento divino, ma come il risultato di un confronto dialettico, basato su una lunga e, quindi, altrettanto paziente riflessione (cf. Hornig 1976),

Wenn sich die Productionskraft eine Zeit lang angestaut hat und am Ausfliessen durch ein Hemmnis gehindert worden ist, dann giebt es endlich einen so plötzlichen Erguss, als ob eine unmittelbare Inspiration, ohne vorhergegangenes inneres Arbeiten, also ein Wunder sich vollziehe. Diess macht die bekannte Täuschung aus, an deren Fortbestehen, wie gesagt, das Interesse aller Künsterl ein wenig zu sehr hängt. Das Capital hat sich eben nur angehäuft, es ist nicht auf einmal vom Himmel gefallen. (Nietzsche 1988, af. 156, 147) [7]

Anche la sintesi operata da Svevo tra umano ingegno e istinto animalesco attraverso l'immagine della "formica critica" affonda le sue radici in una tradizione europea ottocentesca, "Genie ist Fleiß" ("Il genio è impegno"), le cui tracce si fanno risalire a vari autori, tra cui Theodor Fontane. Allo stesso periodo appartiene anche la citazione di Georges Buffon "Il genio non è altro che una grande attitudine alla pazienza", e di Mme Necker "le génie se forme par la patience, en considérant longtemps une idée, et en trouvant enfin des rapports féconds et bien liés." (Necker 1801, 154).

4. Il superamento dell'ispirazione

Nei testi di Svevo e di Pirandello si palesano due concezioni distinte dell'ispirazione che coesistono nel primo Novecento, e che rinviano ai noti archetipi della visione artistica, articolandosi rispettivamente intorno ai concetti di "poeta vate" e di "poeta artefice".

Svevo oppone ispirazione e pazienza, ispirazione e natura, e vede nell'ispirazione un atto quasi divino – non senza un sottotono ironico. Solo la formica dal senso critico, quindi la combinazione tra diligenza e ispirazione, può superare tale polarità. Stefano concepisce l'ispirazione in modo del tutto contrario. La noia (e in fin dei conti la noia ha molto a che fare con la pazienza) diventa nelle sue considerazioni una condizione necessaria per l'ispirazione.

Ciò detto, in entrambi i testi presi in esame la "voce saggistica" assume un atteggiamento rassegnato riguardo al concetto d'ispirazione. Mentre Stefano cerca di fare di tutto per convincere suo padre, il padre si ritira. La noia diventa per lui una situazione pesante e inaccettabile. Gli provoca addirittura un senso di angoscia, perché in presenza della noia il soggetto è costretto a confrontarsi con se stesso:

Ma io, ormai, ritorno anche in questo alla vita di tutti: aborro dalla noia. E la noia è per me la presenza di me stesso libero. Solo. Mi dico cose troppo tristi o mi sollecito ad azioni enormi. Non so dove mi potrei condurre. (Pirandello 1935, 1505)

I tempi dell'ispirazione sono passati. L'atto artistico non può che esprimersi attraverso il lavoro, attraverso la figura del poeta artefice che non ha visioni divine, ma al contrario è ben cosciente che con impegno e sudore si possono produrre degli oggetti artistici che possono ispirare a loro volta i lettori a cui sono destinati.

L'indifferenza per l'ispirazione in Svevo assume tuttavia altri contorni. Mentre le riflessioni di Svevo sull'ispirazione, fin qui illustrate, erano soprattutto generiche, nell'ultimo paragrafo l'io saggistico collega il concetto al suo soggetto. La voce pensante, prima di essere interrotta violentemente all'interno di una frase, conclude il frammento affermando: "Noi non sappiamo bene distinguere fra ispirazione e ispirazione, ma a me non importa perché credo si tratti sempre della stessa creatura" (ibid.).

Questa è chiaramente una frase suscettibile di svalutare l’essenziale di quanto affermato in precedenza. Una dichiarazione assolutamente enigmatica, che corona il carattere profetico che questo breve testo assume, quasi apparentandolo a qualche aforisma nietzschiano o al pensiero di Zarathustra.

Perché l'autore propone la sua analisi, se alla fine tutto questo "non importa"? Da un lato, la conlusione del suo testo la si potrebbe intendere nel senso di una costruzione ironica, come ce ne sono tante nella storia del saggio inteso quale genere, a partire da Montaigne (basti pensare alla fine dell'essai I.31 sui cannibali). Dall'altro, la zoomorfizzazione del concetto di ispirazione attraverso la parola "creatura" suggerisce nuovamente, in queste righe, un rinvio al campo semantico della natura e delle bestie, che nella "visione profetica" (secondo le parole dell’autore) avrebbero dovuto essere uccise – implicando, di fatto, che il concetto di ispirazione possa, in qualche modo, essere responsabile, se non altro in alcune circonstanze, di un suo eventuale auto-annullamento.

Qui come altrove il testo mostra bene cosa si possa permettere un saggio letterario: di lasciare, per finire, il lettore da solo, in maniera da invitarlo a proseguire autonomamente le riflessioni in corso. Il saggio letterario cerca sempre, per così dire, di rendere insicuri. La sua funzione non è quella di dire al lettore come stanno le cose. Il suo compito è piuttosto di rendere conto delle contraddizioni, senza risolverle in modo univoco. Alla base di questo concetto sta un profondo scetticismo che collega tutti i prodotti della lunga tradizione di essays – anche in Italia.

Pazienza e Ispirazione, Natura e Uomo sono i "concetti concorrenti", intorno ai quali il discorso sull'ispirazione di Svevo e Pirandello si articola – il rapporto dicotomico che questi termini intrattengono sembra tracciare una demarcazione da molti punti di vista insuperabile tra l'idea di un poeta vate, ispirato da una qualità divina, e quella di un poeta artefice, che crea tramite lavoro e sudore. Attraverso la forma saggistica entrambi gli autori relativizzano, tuttavia, le proprie analisi e le proprie convinzioni, contribuendo in tal modo a problematizzare la diffidenza che nutrono tutti e due nei confronti di una concezione, per molti versi metafisica, dell'ispirazione artistica, intesa in senso lato.

 

How to cite | Come citare: Göschl, Albert (2020), "Riflessioni sul concetto d'ispirazione in due saggi di Italo Svevo e Luigi Pirandello." In lettere aperte vol. 7, pp. 57-65. [permalink: https://www.lettereaperte.net/artikel/ausgabe-72020/442]

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Immagine in copertina: Ernesto Parmeggiani, Orfeo sul monte Radope, 1902; Copyright: Archivio fotografico del Museo Civico di Modena, CC BY-SA 3.0. https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Ernesto_Parmeggiani,_Orfeo_sul_monte_Radope,_olio_su_tela,_1902.TI