In principio era il Verbo. E alla fine? George Steiner e la crisi dell’umanesimo

Il racconto della fine

“L’Apostolo ci dice che in principio era il Verbo. Non ci dice nulla per quanto riguarda la fine” (1972c, 27): con questo aforisma George Steiner sintetizza il significato dell’alternativa tra linguaggio e silenzio che, ai suoi occhi, si apre di fronte all’umanità nella fase estrema della modernità. Il lavoro critico di Steiner può essere interpretato come una inesausta interrogazione circa le condizioni di possibilità della parola.[1] Il vento gelido di Auschwitz ha congelato il linguaggio e per la prima volta ha messo l’uomo di fronte alla possibilità che il silenzio diventasse definitivo. La domanda inquietante, già posta da Adorno, sull’avvenire della poesia dopo lo sterminio concepito nel grembo stesso della Kultur occidentale, viene in qualche modo estesa, prolungata, riformulata da Steiner in relazione ai problemi nuovi posti dal contesto della ‘pace’: ha un avvenire la poesia nel tempo del post-umanesimo e della mutazione tecnologica?[2] La questione della tecnica, che Martin Heidegger pone nel 1953, interroga a partire dal secondo dopoguerra le pratiche di elaborazione e trasmissione del sapere, e ripete la domanda che era nella provocazione di Adorno: la dialettica dell’illuminismo[3] sta per consegnare di nuovo la cultura al silenzio (Heidegger 1991, 5-27)? È un interrogativo che ha acquisito forza progressivamente e ora, all’inizio del terzo millennio, sembra diventato ineludibile, nella misura in cui le trasformazioni tecnologiche che stanno riconfigurando tutte le superfici della conoscenza sembrano destinate a distruggere il logos che il pensiero occidentale, da Gerusalemme ad Atene, ha collocato all’inizio della storia.

Si tratta naturalmente di domande enormi, vertiginose, che riguardano la consistenza stessa dei saperi umanistici e del modo di concepire il mondo che l’umanesimo ha ‘informato’. E proprio da una sindrome di ‘gigantismo’ è affetta la saggistica di George Steiner, che stila una sorta di catalogo delle domande, delle inquietudini e dei problemi posti dalla crisi di esaurimento del sistema culturale occidentale, riflessa sui fenomeni della scrittura, della lettura e dell’interpretazione.

Per Adorno la poesia può sopravvivere come residuo, come “storiografia inconscia” che registra i segni degli eventi ‘rimossi’ (Adorno 2009, 307).[4] Nello spazio precario, instabile, immaginario che sta tra la pienezza del linguaggio e la negazione del silenzio si incunea la testimonianza letteraria, la cui eco percorre come un fantasma l’indagine critica di Steiner. Come in un labirinto la parola si rifrange ovunque, ma il critico non riesce mai a raggiungerla compiutamente, può al massimo descrivere la traccia lasciata dal suo passaggio. L’eco gli rimanda il suono della sua voce, e con esso il sospetto di essere rimasto solo, di essere rimasto l’unico, l’ultimo, a parlare.

L’insistente e tenace proclama di Steiner a favore di un recupero dei testi primari, di una riscoperta del corpo a corpo con la tradizione, ha un rovescio paradossale: la genealogia lunga della parola, lo sguardo prospettico sulla tradizione, la capacità di comprendere dentro un unico sistema di valori l’intero patrimonio culturale d’Occidente, sopravvive soltanto nelle parole del critico. Che ha creato il personaggio de ‘l’ultimo’ testimone di una storia, l’ultimo a possedere le competenze linguistiche e culturali, e la disinvoltura antispecialistica, per imbastire un discorso di cosí ampia portata. Evocandola e percorrendola, interrogandola sul suo senso e sulla sua estinzione, è il critico stesso a dissolvere la tradizione letteraria nella narrazione della sua fine. Del resto Steiner afferma spesso che, tra i sintomi dello stallo che descrive, sta il fatto che la scrittura secondaria sovrasta per qualità e quantità la primaria: i vasti territori della non-fiction hanno assorbito e rimodulato creativamente le tecniche e le energie delle opere d’invenzione.[5] Il critico, dunque, anziché contribuire a trasmettere il patrimonio culturale, diventa il testimone di una scomparsa. Le grandi sintesi di Steiner riassumono la storia delle grammatiche della creazione bruciando tutto lo spazio che va dalla rivelazione prima della Parola alla dispersione finale nell’indistinto dei segni. Steiner riscrive la storia della cultura dal punto di vista dell’estinzione e della distruzione, fino a intravedere la fisionomia di una ‘post-cultura’.

[1] Sul significato del libro di Steiner Linguaggio e silenzio per la cultura europea e per la critica italiana cfr. Borghesi 2011.

[2] “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”, afferma Adorno nel 1949 (Adorno 1972, 22). Nel 1966 Adorno riprende il discusso aforisma e lo assume nella sua Negative Dialektik: “Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è piú possibile. Il rapporto delle cose non può stabilirsi che in un terreno vago, in una specie di no man’s land filosofica.” (Adorno 2004, 326). Andrea Cortellessa ha interpretato la sentenza di Adorno risalendo all’etimologia del termine barbarie: la poesia nella fase estrema della modernità è possibile solo come balbettio, scarto, resto, testimonianza minore, minoritaria e minorata, quindi esterna e decentrata, dell’indicibile. (Cortellessa 2006, xliv-xlvi.) Eugenio Montale, ritirando il Premio Nobel, il 12 dicembre del 1975 pronuncia all’Accademia di Svezia un discorso nel quale risuona la domanda adorniana: È ancora possibile la poesia? (Montale 1996, 3030-3040).

[3] Dialektik der Aufklärung è il celebre saggio scritto da Adorno con Max Horkheimer e pubblicato ad Amsterdam nel 1947.

[4] L’idea adorniana della poesia come storiografia sotterranea dell’umanità è ripresa da . “Qualcosa al di fuori e al di là dello scrivere”. (Zanzotto 1999, 1222-1234).

[5] “What we see at present is the powerful diffusion of fictional techniques into non- and part-fiction. The inventiveness, the stylistic energy, the eye for scenario and symbolic detail which abound in current biography, history, political record, and writings about sciences are directly inherited from the novel.” (1968, 166).

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