Geografia poetica dell’assenza. Poeti italoamericani e l’Italia abbandonata

La chiave di volta assente

Per John Ciardi, gli estremi tra la distanza geografica e spirituale tra il mondo della madre e il proprio non possono congiungersi in vita. La traiettoria rimane incompleta, arrestata a mezz’aria come “un tuffatore resta sospeso tra mare e scoglio” (ivi.). Il passo mancante, l’anello che completerebbe la catena somiglia a quella “pietra ignota” che manca in quest’arco nel villaggio abbandonato di Croce, a mezza costa sulle colline intorno a Caserta, in Campania (ivi.).[11] Le pietre squadrate dell’arco poggiano su un muro antico, un tradizionale muretto a secco costruito con sassi di diverse forme e dimensioni. Rocce e pietre, a volte ancora cementate, a volte rotolate via, sono il materiale dei paesi abbandonati e nascondono un forte significato simbolico, come “una sorta di super io del paesaggio e delle popolazioni” (Teti 2004: 178). Nota Vito Teti, nei suoi viaggi nel Sud, che “le pietre sono i materiali e i simboli dei luoghi abbandonati”; nella loro umile elementarità, esse “ricordano che vi è stata una storia che non può essere raccontata soltanto dai resti di colonne elaborate, di marmi colorati, di capitelli pregiati” (Teti 2004: 182).

La volta incompleta simboleggia l’unione impossibile tra il semiarco italiano e quello americano. Lo scrittore Joseph Luzzi ha significativamente intitolato il suo recente romanzo autobiografico, My Two Italies (Le mie due Italie, 2014), proprio riconoscendo l’incolmabile distanza fra l’Italia che sarebbe potuta essere (il suo io meridionale e contadino, legato alla terra dei suoi genitori) e l’Italia letteraria che ha formato l’uomo che è diventato (uno studioso e uno scrittore). Il viaggio di Luzzi nella terra d’origine non fa che confermare il suo sentimento di alterità. Guardando i paesani che aspettano nella piazza, egli viene colpito da un senso d’incompleta appartenenza: “Come gemelli spediti in due case diverse alla nascita, i nostri corpi dichiaravano una comune radice biologica, ma il nostro portamento, gestualità e abbigliamento suggerivano altrimenti” (Luzzi 2014: 13). Gli estremi dell’arco non si incontrano: la chiave di volta mancante è la consapevolezza dell’irriconciliabilità tra i due mondi. Solo all’immaginazione poetica è dato di colmare questo spazio vuoto.

I due estremi si incontrano in zona nebulosa anche nell’esperienza della poetessa Sandra Mortola Gilbert. Il suo viaggio in Italia, alla ricerca di radici dimenticate, annega in un senso di impossibile comprensione. Studiosa e critica di fama, Mortola Gilbert nascose per anni il suo retaggio italiano, la “vocale cattolica” del suo nome di famiglia, Mortola, dietro alla “consonante protestante” del nome del marito, Gilbert (Mortola Gilbert 1997: 56). Solo di recente riprese possesso del nome italiano, ammettendo di essere “un’italoamericana che non parla italiano” (ibid., 52). Il suo poetico ritorno alle origini è marcato da visite ad un paese tanto sconosciuto quanto le sue origini negate: nella poesia “Mare Incognita,” visita luoghi in cui “le forme sono sconosciute / intricate come il pensiero” (Mortola Gilbert 2003: 3). Nella poesia “In the golden sala” (Mortola Gilbert 2003: 21) descrive il surreale palazzo in rovina di Sambuca Zabut, i cui ori e affreschi avevano ospitato la nonna siciliana e le sue galline. Questo palazzo, “una zona liminale” (Mortola Gilbert 1997: 59)[12] si erge in un paese che non le appartiene: “Non avevo mai capito dove fosse, per non parlare di cosa fosse” (ibid., 60). In “Giardini La Mortola (Ventimiglia)”, Mortola Gilbert ricorda la prima casa del padre, ma alla fine della poesia, si pone una domanda che ha la forma di un fitto bosco di cipressi. L’attraversamento le è negato: i due estremi dell’arco non si ricongiungono e la risposta alla sua domanda resta sospesa nel congiuntivo ipotetico, celata nell’ombra dei cipressi:

Mi dici

che sono germogliata anch’io da tale suolo,

qualche secolo fa,

se riuscissi ad attraversare

il pericoloso passaggio nel bosco di cipressi,

saprei raggiungere quel luogo?

(Mortola Gilbert 2003: 24).

“Poetessa di New York,” anche Daniela Gioseffi non può risolvere la profonda ambiguità delle sue origini (Gioseffi 2006: 116–119; Traduzione di Ned Condini). Sebbene riceva un’accoglienza trionfale nella città del padre, Orta Nova, immediatamente la descrive come citta dei morti e della stranezza: “Orta Nova, città dove mio padre morto nacque. / Com’è strano vederti, piccolo villaggio.” (ibid., 117) È interessante notare che fin dal titolo della poesia, troviamo un altro toponimo che rivela l’indeterminatezza del luogo: “Orta Nova, Provincia di Puglia” (ivi.) non esiste. Orta Nova non è in provincia di Puglia né fa provincia a sé. Sulla carta geografica politica, è Orta Nova, provincia di Foggia, in Puglia. Ma non importa, questa è la carta geografica di un’Italia poetica.

Una volta ad Orta Nova, Gioseffi riesce a godere di un momento di ritrovata intimità con un padre che può finalmente comprendere: “Ti ho incontrato / di nuovo, Padre, e ho capito meglio le tue fatiche, / la tua lotta, il tuo orgoglio, la tua umiltà.” (ivi.) Qui vede una terra di fiori e di antichi sentimenti: “terra di sole, cieli azzurri, fiori / bianchi e rosa, case di stucco bianche / e povertà” (ivi.). Eppure, anch’essa esprime un interrogativo che resta sospeso, la domanda dell’appartenenza: “Qual’è la mia casa vera?” (ivi.) La conclusione non è che l’accettazione di uno spazio irrimediabilmente attraversato e di un tempo irrimediabilmente trascorso:

Questo viaggio

paradossale all’indietro verso una generazione smarrita

per sempre sparita forgiando una strada

dal Vecchio verso il Nuovo Mondo.

(Gioseffi 2006: 119)

Dal vecchio al nuovo mondo, il ponte resta spezzato nel vuoto. Nel momento in cui gli antenati emigranti fecero il loro passo verso l’ignoto (come amano descriverlo nei loro racconti), i legami con il passato si sfilacciarono e si persero. A Roghudi, paese grecanico arroccato su un precipizio sui monti della Calabria ed ora abbandonato, si possono ancora vedere, affissi sui muri delle case, dei grossi chiodi di ferro arrugginito. Erano usati dalle madri per annodarci corde legate alle caviglie dei loro bambini, perché impedissero loro di precipitare nel burrone sottostante.[13] Oggi, non ci sono né chiodi né corde a mantenere questi figli americani legati al loro passato italiano.

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foto: Mulberry Street (ca. 1900), Library of Congress (cc), https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/8/8e/NYC_Mulberry_Street_3g04637u.jpg/1200px-NYC_Mulberry_Street_3g04637u.jpg