L’autonomizzazione del campo letterario italiano nel primo Novecento: i dintorni della «Voce»

I nemici dell’avanguardia

Ma chi sono i nemici che accomunano il gruppo di intellettuali che, intorno all’inizio degli anni Dieci, trova coagulo intorno alla «Voce»?

Primo avversario è il mondo universitario di cui si denuncia la corruzione: «La Voce» presta una grande attenzione polemica al malaffare accademico, soprattutto nella gestione dei concorsi, che costituiscono la soglia di sbarramento istituzionale per i nuovi entranti. L’accademia è nemica perché non lascia entrare i protagonisti delle battaglie vociane: personaggi come Papini e Prezzolini, Cecchi e Amendola non sono laureati, e sono dunque esclusi dall’accademia in quanto non hanno titoli per accedervi, ma la sovrapproduzione di laureati fa sì che anche personaggi dotati di titoli prestigiosi fatichino a trovare una posizione – un nome per tutti, quello di Giovanni Gentile, diplomato alla Scuola Normale Superiore di Pisa, a lungo privo di cattedra e in quanto tale protagonista emblematico del pamphlet di Croce Giovanni Gentile e la disonestà nella vita universitaria italiana (1909). In questa battaglia contro l’indegnità dell’università, infatti, «La Voce», come già il «Leonardo», si ritrova alleata di un altro intellettuale non laureato, Croce. Come la «Critica» di quest’ultimo, infatti, la «Voce» vuole essere, tra le altre cose, uno strumento per creare le condizioni di possibilità di un polo intellettuale autorevole e prestigioso al di fuori e senza la necessità dell’avallo istituzionale dell’Università.

 

Croce

 

Un altro nemico comune agli autori della «Voce», Croce compreso, è l’impianto metodologico dominante all’università: il positivismo. Dietro l’attacco a questa filosofia possiamo vedere un ulteriore colpo inferto al sistema – l’università, appunto – da cui gli esponenti di questa avanguardia sono esclusi, ma nel livore antipositivista si intravede anche la minaccia portata alla figura tradizionale del letterato e del filosofo dall’avvento di nuove discipline come la psicologia e la sociologia. La nascita di queste partizioni e specializzazioni del lavoro intellettuale sottrae a filosofi e letterati quegli ambiti di realtà che un tempo erano loro dominio esclusivo: l’interiorità, la rappresentazione del mondo sociale, ma anche il diritto alla presa di parola pubblica, che dai poeti-vati sembra sempre più spesso passare a sociologi, psichiatri o antropologi come Lombroso.

I loro oracoli e i loro discorsi non vengono letti e ascoltati soltanto da quel pubblico molto ristretto, per quanto poco scelto, composto di scienziati amici, di assistenti ambiziosi e di relatori di accademie ma son letti e ascoltati da un pubblico molto più largo, dove entrano le signore, i dilettanti, i maestri elementari, i così detti “uomini colti” e perfino giornalisti, e non solo son letti e ascoltati ma anche discussi, criticati, lodati, citati, copiati e malintesi.

(Papini-Prezzolini 1906, 153)

Questa conflittualità latente tra gli intellettuali di formazione più tradizionale e quelli impegnati nella fondazione di nuove discipline può spiegare la grande importanza attribuita dalla «Voce» alla “questione sessuale”, cui è interamente dedicato il numero del 10 febbraio 1910; la rivista organizza anche due convegni sul tema, quell’anno stesso e il successivo a Firenze e Milano.[1] Parlare dei cambiamenti in atto nella morale sessuale corrente significa infatti sottrarre un argomento caratteristico della modernità ai modi kitsch e superficiali con cui l’aveva affrontato per esempio il medico, neurologo, fisiologo e antropologo Paolo Mantegazza, autore di testi allo stesso tempo conformisti e pruriginosi.

 

La Voce: questione sessusale Madella: fisiologia del piacere

 

Nell’attacco al positivismo finisce coinvolta la cultura tedesca: è nel contesto di questa battaglia, infatti, che vanno lette le aspre posizioni di condanna della produzione intellettuale tedesca contemporanea (cui viene contrapposta quella dei Romantici) assunte dall’avanguardia fiorentina: il termine “Germania” diviene metonimia di un sistema accademico modellato su quello tedesco ed egemonizzato dai metodi positivisti. Che gli avversari siano italiani e non tedeschi lo aveva ammesso implicitamente Prezzolini sul «Leonardo»:

Le nazioni straniere ognuno se le fabbrica come vuole, e se la Germania s’è procacciata la fama di pedante, non è tanto colpa dei pedanti tedeschi, quando degli italiani che avevano voglia di diventare pedanti.

(Prezzolini 1906, 346)

Infine, come abbiamo cominciato a intuire dagli articoli di Prezzolini, Croce e Papini sugli sbocchi professionali dei letterati, il giornalismo è un altro “nemico” della nuova avanguardia – o meglio, più che il giornalismo in quanto tale, l’intromissione di modus operandi propri del campo giornalistico all’interno della produzione culturale. Lo dimostra il fatto che uno dei bersagli polemici preferiti della «Voce» è Ugo Ojetti, che è contemporaneamente scrittore, giornalista e critico: non un giornalista “puro”, ma una figura a cavallo tra campi diversi. Personaggi come Ojetti, esercitando il mestiere del critico sui giornali e compromettendo il giudizio letterario con la logica giornalistica, finiscono per minare la possibilità di istituire una critica fondata sul “puro” giudizio estetico. Una condanna ancora più aspra la subiranno poi quegli intellettuali dell’avanguardia che intraprendono una carriera giornalistica pur rimanendo attivi nel campo letterario come critici, come Giuseppe Antonio Borgese ed Emilio Cecchi.

Il Borgese aggiunge che il Ferrero ha dilapidato il suo ingegno. […] il Borgese dovrebbe essere l’ultimo degli ultimi a muovere una tale accusa al Ferrero, lui che per tanti anni ha scialacquato il suo grandissimo ingegno nelle terze pagine dei quotidiani.

(Amendola-Papini 1910)

 

Molti anni fa il Cecchi si dava l’aria d’essere il più puro ed austero anacoreta dell’arte e andava dicendo che non avrebbe mai sputtanato il suo ingegno, come gli altri, su per i giornali e per le riviste […] Malagodi lo scritturò per la Tribuna e finalmente il sogno massimo della sua vita pratica e letteraria fu pago. Giornalista era nell’anima e giornalista diventò più che mai: né carne né pesce, né esse né enne, né canaglia né santo.

(Papini 1915, 359)

Elogio dell’outsider

Università e giornalismo sono dunque agli occhi e nelle descrizioni che ne fanno questi giovani mondi di corruzione e compromessi, che non consentono un’autentica e libera attività intellettuale. Sono proprio gli autodidatti Papini e Prezzolini a fornirci la versione più radicale di questa insofferenza nei confronti della cultura istituzionalmente riconosciuta: fin dal principio della loro carriere, entrambi hanno le idee molto chiare, come si legge nell’introduzione a La Coltura italiana (1906), libro scritto a quattro mani con l’intento di liquidare l’intero panorama culturale coevo.

Lo Stato fa distribuire malamente nelle sue scuole certe dosi di lingue o di scienze; concede largamente certificati, titoli e diplomi a chi le frequenta e non riconosce, nei concorsi di ogni genere, se non quella coltura ch’egli stesso ha fatto dare. Vale a dire che tutti coloro che vogliono vivere con quello che sanno sono obbligati a recarsi negli stabilimenti pubblici dove si confezionano, sotto la garanzia governativa, i colti, i dotti e i semidotti. Quanto a tutta la coltura che sta al di fuori di codeste scuole il Governo non se n’occupa. Per lui essa non esiste o non ha nessun valore legale.

Questo terribile monopolio della coltura fa sì che manca presso di noi quella classe colta intermedia la quale fa la fortuna delle nazioni più fortunate della nostra; cioè quella classe di persone che si occupano di studi al di fuori delle scuole pubbliche e non se n’occupano né per insegnare in codeste scuole pubbliche e neppure per servire in qualsiasi modo lo Stato. Questa classe di cercatori e di lettori disinteressati e indipendenti è molto scarsa fra noi e per certe scienze manca affatto. Dall’ignoranza del popolo e dalla superficiale istruzione dei licenziati delle scuole medie si passa allo specialismo assurdo dei professori d’Università, i quali sono asini come gli altri in moltissime cose e sanno inutilmente troppo di certe altre. I pochi autodidatti che si formano qua e là, malgrado tutte le condizioni avverse, sono guardati con pietà dagli ignoranti perché non hanno una posizione ufficiale e un salario fisso e sono spregiati dai dotti regolarizzati e bollati perché non hanno né titoli né una specialità, e anche perché possono permettersi una libertà di linguaggio che a loro, stretti fra le mafie e le bizze del mondo ufficiale, non è concessa.

(Prezzolini-Papini 1906, 6-7)

Questo brano è esemplare della visione dell’escluso – e della lucidità dell’escluso, che vede chiaramente come i titoli di studio, prima che un attestato di merito, siano il biglietto di ingresso istituzionale con cui lo Stato controlla l’accesso ai mondi intellettuali. Ovviamente, i non laureati e sostanzialmente autodidatti Papini e Prezzolini esaltano la posizione opposta (che è la loro): quella di chi vuole guadagnarsi da vivere con ciò che sa ma non possiede un biglietto di ingresso validato dallo Stato: la posizione di «lettori e cercatori disinteressati e indipendenti» che proprio in quanto tali «possono permettersi la libertà». Con questa rivendicazione orgogliosa, Papini e Prezzolini rovesciano il loro handicap (la mancanza di titoli per un inserimento “canonico” nel mondo intellettuale) in una ricchezza e in un punto di forza: la rivendicazione di autonomia dei campi intellettuali che anima le loro battaglie è radicata nell’eccentricità delle loro traiettorie intellettuali.

 

chiudiamo le scuole

 

 

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