Geografia poetica dell’assenza. Poeti italoamericani e l’Italia abbandonata

Il caminetto spento

Questa cucina abbandonata nel villaggio di Lampore (pronunciato Lampuré, lamponi, nel dialetto piemontese), in provincia di Cuneo, è la visualizzazione perfetta della delusione che attende questi figli di emigranti al termine del loro nostos, il viaggio di ritorno verso le origini. L’ampio, freddo focolare annerito, sembra aver dimenticato il calore di fuochi antichi. Il soffitto inarcato della cucina non fa che ingrandire il vuoto ed amplificare l’eco delle voci assenti. I paesani di Lampore usavano questo camino come forno comune. Ora restano solo oscurità e silenzio e l’intonaco a sfogliarsi.

In un simile vuoto approda la ricerca del poeta Paul Mariani, professore universitario conosciuto per il suo fervente cattolicesimo, nato a New York nel 1940. In diverse sue poesie egli riconosce la pochezza delle sue memorie italiane. Ciò che lo lega al passato è contenuto in una scatola di fotografie di volti ignoti: “Semisconosciuto / il volto giace nella scatola, un ritratto formale / da cui tutti i nomi sono stati cancellati” (Ciardi 1985: 5–7). Mariani non imparò mai la lingua dei suoi avi, l’italiano dialettale di Compiano, paese dell’Appennino tosco-emiliano: “Io parlo / italiano un poco, John, infatti / quasi per niente. La famiglia di mio padre // venne da Parma ottant’anni fa” (Ciardi 1979: 39–41). In diversi componimenti, egli piange la morte dei suoi vecchi: “Con i pronipoti // tutti i tratti somatici familiari son perduti. Il sangue si diluisce / i giovani entrano in un mondo che noi mai conoscemmo. Julia / e Giuseppe lasciarono Compiano novant’anni fa” (Ciardi 2012: 139–142). Con loro, con gli ultimi vecchi italiani, son cancellati i flebili legami con il passato.

Così, quando Mariani si accinge a rintracciare le sue origini con un viaggio in Italia, nella poesia “A Smooth White Pebble”, non viene accompagnato da parenti viventi, ma da fantasmi letterari: i poeti latini Orazio, Tibullo, Catullo e Giovenale. La finzione prende il sopravvento sulla realtà e il viaggio di ritorno avviene in un universo totalmente letterario. La marcia verso una casa che non conosce ha luogo in una fitta foresta, da cui sembra non riuscire ad emergere:

Il profondo taglio del Taro, che seguimmo tutto quel

pomeriggio, cercando quella sporgenza di pietre chiamata Compiano,

mentre cercavo tra le ombre che si allungavano e i volti

semisconosciuti, le rocce e gli alberi e la luce che formarono

i padri di mio padre.

(Mariani 1982: 80)

Intense il cronotopo poetico di Paul Mariani: lo spazio è un sentiero stentato in una fitta foresta che rende ardua la ricerca, mentre il crepuscolo che segna il tempo dell’identità italoamericana. La Compiano di Mariani non si ricompone mai in un paese esistente, ma resterà un paese abbandonato e muto. La casa antica lo accoglie con un desolato focolare spento.

Simile è la ricerca iniziata dal poeta Dana Gioia, nato a Los Angeles nel 1950 da madre messicana e padre italoamericano. Gioia dedica una collezione di poesie,“Journeys in the Sunlight”, ad un viaggio in Italia come terra immaginata, preceduto da un epitaffio di Wallance Stevens che nomina “un’Italia della mente”. La distanza dal passato è evidente: Gioia si definisce un “émigré” non un figlio di emigranti, uno “che viene sul sentiero del giardino / da una casa che non [gli] appartiene” (Gioia 1986: 55).

Nella poesia “The Garden on the Campagna,” Gioia invita a tralasciare l’Italia dell’arte e dei capolavori, per addentrarsi sui sentieri meno frequentati che s’inerpicano tra le rovine, in un paesaggio ferito dal tempo, in cui la vita non è che memoria:

Solo le più piccole cose sopravvivono

in questa terra esaurita, abbandonata

dagli dei da tempo immemore. Il tempo

e la pioggia hanno dilavato il volto dell’eroe

dalla statua. La meridiana

resta immobile nell’ombra perpetua.

(Gioia 1986: 59)

Nell’intensa poesia “Instructions for the Afternoon,” Gioia vagabonda in un paese abbandonato e inforca sentieri minori alla ricerca di un’illuminazione che gli dia una possibilità di comprensione: “Perché così / è come bisogna vedere, per capire: / camminando dalla luce del sole verso l’oscurità.” (Gioia 1986: 56) Il cronotopo che la poesia crea è un’intensa immagine in cui lo spazio dell’italoamericano è una piazza vuota e abbandonata, mentre il tempo è quello tracciato da una bizzarra meridiana, formata dalla vetta del campanile antico sulla polvere del selciato:

Lascia i musei. Scova le chiese buie

negli sperduti paesi che la storia ha scordato

nei luoghi senza importanza che i potenti ignorano

dove i commercianti sanno che non si trova profitto.

Tristi contrade alla fine di torrenti limacciosi,

aridi villaggi di montagna dove il tempo

è l’ombra sottile di una torre antica

che attraversa il ciotolato assolato della piazza

e scompare ogni sera senza lasciare traccia.

(Gioia 1986: 56)

La sua ricerca fallisce, lasciando “immutato il cuore testardo” dopo l’incontro con “una lingua che / non imparerai mai.” (Gioia 1986: 56) La visione che lo attende non è una risposta a un passato sconosciuto, quanto la rassegnazione a un differente destino. Le immagini usate in questi versi trovano riscontro nelle scene offerte dai paesi abbandonati d’Italia: chiese vuote, soffitti crollati e volte forate, affreschi sbiaditi e santi senza nicchia, segni esterni di una rivelazione abortita:

Ma la visione fallisce, e l’aria umida

puzza di muffa estiva e di rovina,

se i gradini consumati che portano all’altare

non portano più a niente, se non alla pietra, questa, allora può essere

la rivelazione – solo quella di un destino

fissato come affresco sgraziato sul muro.

(Gioia 1986: 57)

In “The Lost Garden,” Gioia suggerisce una conclusione più ottimistica, un’accettazione rassegnata della perdita. Qui il poeta descrive un passato indeterminato e distante, forse la giovinezza o forse la patria perduta, con “altri passeri” ed “altri rampicanti” (Gioia 1986: 67).[14] Il dolore dello sradicamento è mitigato dalla sua stessa trasformazione in narrazione (forse nei racconti della nonna): “Il dolore diventa parte di una storia ben pensata / che descrive altri che portano il nostro nome” (ivi.)

Il trucco è fare della memoria una benedizione,

imparare, attraverso la perdita, la fredda sottrazione del desiderio,

nel voler non più di ciò che è stato

nel saper il passato per sempre perduto, ma continuare a vedere

dietro al muro un giardino ancora in fiore.

(Gioia 2001: 68)

Nell’Italia abbandonata di Dana Gioia, se il caminetto è ormai spento, un giardino continua a fiorire dietro al muro. Arrendendosi al desiderio inappagato, il poeta accetta la propria identità di domanda e di risposta, di assenza e presenza, di guanto e mano. Gioia accetta di “voler non più di ciò che è stato” (ivi.), riecheggiando così la consapevolezza di John Ciardi: “Semplicemente perché è più importante / Ricordare di essere che essere stato, io sono / Quella mano guantata e il guanto sulla mano” (Ciardi 1951: 299). In questo gioco di tempi verbali e di modi possibili e impossibili, si declina l’essere di questi cittadini ‘al condizionale passato’: coloro che sarebbero potuti essere e non furono. Coloro che avrebbero potuto giocare nelle piazze del paese ed invece vi lasciarono un vuoto.

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foto: Mulberry Street (ca. 1900), Library of Congress (cc), https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/8/8e/NYC_Mulberry_Street_3g04637u.jpg/1200px-NYC_Mulberry_Street_3g04637u.jpg