Libertà di Verga ovvero come il testo rovescia l'ideologia dell'autore

Come Sartre e Fanon possono aiutare a capire Libertà

Per spiegarmi meglio voglio tentare anche questa volta una comparazione estemporanea, ma spero pregnante. Mi riferisco alla prefazione di Sartre al libro di Fanon I dannati della terra,là dove, a proposito delle esplosioni di violenza contro i bianchi che si erano prodotte nei paesi arabi che negli anni ’50 lottavano per la loro indipendenza, il filosofo scrive: “quei desideri omicidi che salgono dal fondo dei cuori e che essi non sempre riconoscono: giacché non è, da principio, la loro violenza, è la nostra, rivoltataˮ (Sartre 1962, XLIX); e anche: “il torrente della violenza travolgerà tutte le barriere. In Algeria, in Angola, si massacrano a vista gli europei. E’ il momento del boomerang, il terzo tempo della violenza: essa ritorna su di noi, ci percuote e, mica più delle altre volte, noi non capiamo che è la nostra” (ibid., LI). I contesti storici sono diversissimi ma la rappresentazione dei meccanismi della violenza è fondamentalmente la stessa. Alla violenza che Verga ci racconta si potrebbero applicare le parole di Sartre appena modificate: ‘il torrente di violenza travolge tutte le barriere. A Bronte si massacrano a vista tutti i cappelli. E’ il momento del boomerang: la violenza ritorna su di noi cappelli e noi non comprendiamo che è la nostra’ Se dunque interpretiamo Verga alla luce di Sartre forse possiamo accorgerci che le metafore teriomorfiche e razziste di Verga si prestano ad essere lette anche secondo una prospettiva rovesciata: se i contadini si comportano come animali, è perché sono stati trattati come animali.

E non mi pare che bisogna forzare il testo per adeguarlo a questa lettura sartriana. In effetti il racconto di Verga è punteggiato dagli effetti-boomerang di cui parla Sartre. Per esempio: “- A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! – […] A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l'anima! – A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! – A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! – A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno! –” (Verga 1992, 319). E via dicendo. Insomma, se per Verga i contadini di Bronte sono tanto disumani e brutali nella rivolta è perché la loro umanità è stata scacciata a suon di nerbate, soperchierie, abbrutimenti. La loro rivolta non è mai legittimata dallo scrittore, ma non è certo nemmeno mostrata come arbitraria e insensata.

Ritorniamo per esempio ad un passo già citato: “Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente” (ibid., 321). Esso certamente significa che a quel punto i rivoltosi s’erano trasformati letteralmente in “lupi”, in esseri privi di umanità, ma significa anche che a produrre tale metamorfosi erano state “la fame, le bastonate, le soperchierie”. Come si vede siamo ancora e più che mai dalle parti di quegli effetti di rovesciamento che abbiamo detto caratterizzano l’arte di Verga dove una certa verità si può esprimere solo attraverso il suo contrario. Un meccanismo del genere presiede al discorso diretto libero così come adoperato per esempio in Rosso malpelo in cui il coro popolare sembra esprimere un punto di vista ignorante e fatalistico:

Era stato un magro affare e solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l'asino da basto di tutta la cava. […] Zio Mommu lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l'avrebbe tolto per venti onze, tanto era pericoloso; ma d'altra parte tutto è pericolo nelle cave, e se si sta a badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio andare a fare l'avvocato (ibid., 163).

Sulla visione del popolo di Verga

In prima istanza noi sentiamo una voce che esprime pregiudizi primitivi e crudeli e siamo disposti a concludere che Verga ancora una volta vede nel popolo solo rozzezza morale e intellettuale, così come eravamo pronti a pensare che secondo lui la violenza dei contadini in Libertà dipendeva dalla loro animalità. Qui come lì però dobbiamo essere capaci di rivoltare il senso delle frasi, perché è l’autore stesso che ci invita a farlo. Solo a livello superficiale possiamo ritenere che quelle parole si richiamano ad una presunta e fatalistica saggezza popolare, ad ascoltarle meglio si comprende che esse dimostrano che il popolo ha introiettato la logica spietata di un certo tipo di economia spietata. Mettendola in bocca alla gente comune è come se Verga riducesse all’assurdo tale logica. In altre parole, il coro popolare non fa altro che prendere come inevitabile e naturale un sistema di rapporti sociali che invece il racconto stesso ci rivela come moderno, innaturale e ingiusto. Sempre parafrasando Sartre potremmo dire che quel modo di pensare ‘è quello capitalistico, rivoltato’. La voce che ci descrive la vita in miniera, lo sfruttamento dei lavoratori e soprattutto dei bambini, le relazioni disumane che si stabiliscono tra gli sfruttati, non fa altro che dire: è così, non può essere che così, è sempre stato così e così sarà sempre. E in questo essa è, almeno superficialmente, in sintonia con l’ideologia pessimista e conservatrice dell’autore, secondo il quale non c’era effettivamente speranza alcuna di cambiare l’ordine esistente delle cose. Tuttavia il testo in modo evidente, e andando come sempre al di là delle intenzioni dell’autore, induce noi lettori a rivoltare quel discorso acquiescente, e a sentire che no, non può, non deve, o almeno non dovrebbe essere così. Che nessun fato può pretendere che Malpelo debba morire così, se non quel nuovo fato moderno che è il capitalismo.

In Libertà non ritroviamo il libero indiretto ma il meccanismo in gioco è pur sempre quello: se dapprima noi siamo indotti a prendere le distanze (noi non siamo loro, noi non siamo così barbari) subito dopo siamo invece costretti, magari controvoglia, a riscontrare una equivalenza: la loro violenza è la nostra, rivoltata. Dico ‘nostra’ perché non c’è dubbio che Verga era un cappello, e che scrivendo s’è messo dalla parte dei cappelli, e a loro s’è rivolto, facendogli sentire che quella violenza li riguardava, che essa non era solo e tanto il retaggio di una organizzazione feudale, ma una minaccia sempre attuale, tanto più attuale per s’era impegnato a ‘dare la libertà’ a tutti. Parte della strana eccitazione che informa la prima parte del racconto deriva proprio dalla gioia di mandare all’aria qualsiasi visione ottimistica e consolatoria del popolo, sia essa umanitarista e riformista, sia essa patriarcale-feudale. A scrivere qui insomma è, per dirla con Luperini, un Verga animato da una “aspra urgenza anti-idillica” (Luperini 1976, 186). Il popolo è anche questo che vi mostro! sembra dirci. E’ rancore, rabbia, furore. E anche questi sono italiani, che vi piaccia o no!

Sempre sotto il segno del pessimismo amaro potrebbe essere interpretato il senso di sconforto e disorientamento che prende i contadini allorché hanno esaurita la carica di rabbia e violenza e vorrebbero riavere i loro preti e i loro padroni per far dire messa e per farsi assegnare i lavori: “- Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani! – Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana” (Verga 1992, 322). Questa immagine ci dice che i contadini di Bronte possono solo riversare il loro odio antico e fino ad allora represso contro i cappelli, ma non sanno immaginarsi un’alternativa razionale a quell’ordine, che automaticamente rimpiangono subito dopo averlo abbattuto. Ma come fare a scambiare questo automatismo, questa rassegnazione per una conferma dell’immutabilità dello stato di cose esistente? Chi potrebbe mai intenderlo come una dimostrazione della legittimità di un certo ordine sociale? Questo fatalismo, sia esso o no una mistificazione dei fatti storici reali, sta comunque sotto il segno di una condizione di soggezione mentale e abbrutimento storicamente determinata, e non certo di un atavico bisogno di servire i signori, esso è insomma il risultato di una degradazione umana subita, dell’introiezione profonda di una subalternità sociale antica ma certo non naturale.

Sempre segnata da questa ambiguità – apparente accettazione di uno stato di cose naturale e immodificabile, e sostanziale dimostrazione che esso dipende da una violenza storica – è anche la malinconica conclusione a cui pervengono gli abitanti di Bronte dopo che nella capitale si è avviato il grande processo:

Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. […] Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche vecchiarello, se gli correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica, al vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi galantuomini, dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che all'aria ci vanno i cenci (ibid. 324s.).

E’ una variante del monologo di Menenio Agrippa, certo, ma possiamo prenderla come espressione della visione quietistica e pessimistica di Verga? Non mi domando se non fosse così per l’individuo Verga, per il possidente Verga, per il galantuomo Verga, ma se è così nel testo?

A me pare di no, a me pare che tale conclusione stia sotto il segno di una rassegnazione che non viene certo gabellata per saggezza popolare ma per resa obbligata alla schiacciante brutalità dei rapporti di forza tra le classi. Si tratta certo di una accettazione dei fatti disperatamente acquiescente, della ratifica delle ragioni dei vincitori da parte dei vinti. Che Verga non vedesse alternative a quell’esito non significa però che ce lo mostri come legittimo.

D’altra parte, è solo perché era ‘protetto’ dalla sua visione pessimista che Verga ha potuto permettersi una critica tanto radicale dello stato reale dei rapporti sociali. Quasi a dire che proprio perché Verga sente e pensa che non è possibile nessuna riforma e tanto meno rivoluzione di quello stato di cose ha poi potuto rivelarne fino in fondo l’assoluta ingiustizia. Siamo più che mai vicini ad una sorta di nucleo profondo della immaginazione di Verga che potrebbe essere compendiato con un enunciato paradossale: il mondo che racconto è ingiusto e inaccettabile tuttavia esso non può che essere accettato come l’unico possibile. La ricezione contraddittoria del racconto, e più in generale dell’opera verghiana intera, può essere intesa a partire da questa proposizione: tra i critici c’è chi ha scelto di enfatizzare la prima parte dell’enunciato e chi la seconda.[5] A me pare però che è solo se ci si rifiuta di scegliere o l’una o l’altra delle opposte tendenze che abitano il testo e le si tratta come opposti coincidenti che ci si può spiegare l’originalità di Libertà: non è benché ma è proprio perché Verga pensa e sente il sistema sociale come immodificabile che egli ce ne può dare una rappresentazione così potente, spietata, capace cioè di farci sentire e rigettare la disumanità di quel sistema.

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