Libertà di Verga ovvero come il testo rovescia l'ideologia dell'autore

Come in Libertà una concezione pessimista e reazionaria del mondo può trasformarsi in una spietata visione critica della società

Non sto dicendo che solo uno scrittore reazionario poteva arrivare a vedere e dire qualcosa di tanto spietato e vero su quello stato di cose, e tanto meno sostengo che i pregiudizi fatalisti di Verga abbiano funzionato come una sorta di sovrastruttura o foglia di fico ideologica che gli ha poi permesso di rivelare che le leggi sociali erano ingiuste e ingiustificabili. Sto invece affermando che c’è una solidarietà segreta tra la visione cupa e rassegnata del mondo che presiede al testo (il mondo non può, non deveche essere così) e la reazione di rivolta morale che in definitiva esso ci comunica: il mondo non deve essere così. E non è certo né la prima né l’ultima volta che una concezione ‘disumana’ della vita si rovescia nel suo opposto, in una rivendicazione di umanità. Accade, tanto per fare un esempio sommo, con Racine, dove c’è appunto solidarietà tra la visione giansenista dello scrittore, cupamente pessimista circa la natura peccaminosa dell’uomo, e l’esaltazione involontaria che lui fa di una grande peccatrice quale Fedra e più in generale della potenza del desiderio. Ma per restare più vicini ai nostri tempi diremo che accade con Verga quel che ci accade con altri scrittori che hanno insistito sugli aspetti terribili della modernità, si chiamino Swift, Baudelaire o Céline. E’ vero, essi hanno unilateralmente, esageratamente insistito sui tratti egoistici, invidiosi, spietati dell’umanità, ma è ben difficile dire che essi si siano così dimostrati acquiescenti al male, caso mai essi ci hanno reso possibile fare i conti in modo tonificante con questi nostri aspetti, che certi partiti presi ottimistici tendevano invece a negare o mitigare. In definitiva c’è più speranza in quella loro disperazione che in tante altre professioni di fede nelle magnifiche sorti e progressive. Potrei portare molti casi, ma per restare in un ambito prossimo a quello di Verga consideriamo le opposte considerazioni che il riformista Chevalley e il conservatore Principe di Salina fanno a proposito della arretratezza siciliana: mentre Chevalley pensa: “‘Questo stato di cose non durerà; la nostra amministrazione, nuova, agile, moderna cambierà tutto’, il Principe “depressoˮ pensa: ‘Tutto questo non dovrebbe durare; però durerà, sempre’” (Tomasi di Lampedusa 1995, 186). In linea di principio è difficile non stare dalla parte di Chevalley, ma il suo ottimismo rischia di fargli sottovalutare il peso di certi condizionamenti cosiddetti naturali o di lunghissimo periodo che invece il Principe ha il torto di sopravvalutare e reificare. In questo senso possiamo applicare al pessimismo di Verga le parole con cui Orlando qualifica il pessimismo di Tomasi di Lampedusa (almeno in parte solidale con quello del personaggio): esso deve essere considerato come “un antidoto all’ottimismo progressista semplificatore e bugiardo”, e ispirato dal “coraggio di [una] disperazione che guarda l’altra faccia della speranza” (Orlando 1998, 123). Insomma, mentre il racconto di Verga ci dice che niente può essere cambiato esso ci suggerisce che ciò è scandaloso perché invece tutto dovrebbe essere cambiato. E davvero le due affermazioni si sostengono l’una con l’altra: la prima suonerebbe solo cinica e comoda se non fosse contraddetta dal pathos struggente della seconda; e quest’ultima suonerebbe troppo apertamente e ottimisticamente engagée se non fosse fortemente relativizzata, se non invalidata, dal disperato realismo della prima. Leggere Verga ci mette sempre davanti a questi doppi vincoli interpretativi che sono costitutivi della sua grandezza e di cui nessun riduzionismo ideologico potrà mai venire a capo.

E la forza di questa visione spietata delle cose si dimostra anche quando è in causa il popolo. Se dobbiamo certo ritrovare nella rappresentazione verghiana di quello le tracce vistose delle paure del proprietario terriero che si sente minacciato, è però da mettere nel conto di una ‘superiore onestà’ l’indisponibilità di Verga a sottoscrivere quei pregiudizi cristiano-patriarcali e socialisti-umanitari secondo cui un popolo umiliato e offeso sarebbe sempre e comunque capace di generosità, di collaborazione, di rispetto e sensibilità. Anche in questo caso Verga ha scelto di essere amaro e duro, di non consolarci, ha scelto cioè di mostrarci che chi è stato sfruttato, affamato, abbrutito allorché si ribella lo fa in modo terribile, spaventoso, disumano. Certo, questa è una verità limitata, – il popolo era di fatto capace anche di ‘buone azioni’ e non avevano certo tutti i torti gli scrittori filopopolari a ricordarcelo – e tuttavia è una verità potente, o meglio potentemente resa.

E a garantire di questa verità è l’obiettività dello scrittore che ci mostra come la disumanità del popolo sia complementare a quella dei proprietari e signori, che qui come altrove ci vengono rappresentati come altrettanto abbrutiti dei loro subalterni, anche se in modo diverso. Come dimostra il seguito del racconto. A partire dagli interventi prima di Bixio e poi delle autorità e del Tribunale che si dimostrano improntati a spirito vendicativo, sbrigatività e insensibilità: “E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono” (Verga 1992, 323). Ma sono soprattutto le descrizioni del comportamento dei giudici a testimoniare di una incapacità del nuovo stato di mettere in pratica una vera giustizia:

Gli avvocati armeggiavano, fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l'avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce (ibid., 325).

Difficile decidere se l’autore condanni di più la violenza brutale dei contadini o quella legale degli avvocati e dei giudici. Si direbbe però che mentre la prima aveva dalla sua tutta la rabbia accumulata da chi aveva subito ingiustizie da sempre, la seconda sia puramente ispirata dal desiderio di mantenere i propri privilegi, e da una incapacità totale di prendere in considerazione l’esistenza concreta dei contadini, la loro realtà di persone. Dall’incapacità totale di pensare ad una qualche riforma delle condizioni agricole dopo lo scampato pericolo. Il processo appare dunque come un rito stanco e dall’esito scontato, un rito di cui gli imputati non comprendono bene il senso, da cui si sentono esclusi, tanto che “cercano di leggere nelle facce” dei giudici il loro destino, così come avrebbero potuto cercare di leggere in certi segni naturali l’arrivo della pioggia o il sole (ibid., 325). E non si può proprio dire che per Verga questa estraneità dipenda dalla loro ignoranza venendo essa rappresentata piuttosto come il prodotto della reale lontananza e estraneità delle istituzioni. E tutto ciò è tanto più amaro perché è evidente che ad amministrare quella ‘giustizia’ sono adesso i rappresentanti del nuovo Stato, che a parole si vorrebbe più equo rispetto a quello borbonico e che invece ne ratifica e forse amplifica le ingiustizie.

Le ragioni dell’interesse universale del caso particolare raccontato da Verga

Se il possidente Verga e il suo hypocrite lecteur possono forse ritenersi comunque soddisfatti di ] questa conclusione, e cioè della sconfitta dell’insurrezione popolare,[6] lo scrittore ci comunica tutt’altra impressione. Anche questo come tanti finali ottocenteschi funziona insomma secondo la logica freudiana della negazione che afferma: è solo rappresentando l’istanza ribelle come finalmente e definitivamente sconfitta e umiliata sul piano fattuale che l’autore può riconoscerle alcune importanti ragioni. Nel finale di Libertà trionfa infatti sì la repressione, trionfa il nuovo stato, trionfano i cappelli, trionfa la logica della proprietà,ma non si può certo dire che tali oggettivi trionfi siano presentati come legittimi: non trionfa infatti il diritto sulla violenza, bensì una violenza più antica e organizzata su una violenza più recente ed estemporanea.

Nel ultime righe della novella, uno dei condannati, prima di essere condotto in carcere esclama: “O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!…ˮ (ibid., 318). E ancora una volta vale la pena distinguere i piani: se ad un primo livello la frase sconsolata del contadino può essere letta nella prospettiva del fatalismo verghiano (che ingenuità credere che qualcosa possa cambiare…), ad un altro livello essa ci fa sentire che quel contadino ha ragione: con quel processo la promessa di cambiare le cose con cui i garibaldini avevano ottenuto l’appoggio delle plebi viene definitivamente rinnegata, ed è perciò giusto stupirsene, chiederne conto, addolorarsene. Al di là delle intenzioni d’autore, quel finale ci chiama a rispondere ad una domanda di libertà e di giustizia che per quanto giudicata senza possibile esito dall’autore ci interroga ancora tutti. Come tanti racconti e romanzi otto e novecenteschi anche Libertà ci chiama insomma a riflettere sulla modernità come progetto storico incompiuto. Perché in fondo a tutti noi …avevano detto che c’era la libertà.

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